28 Novembre 2019
Giorno 1: la partenza
Eccoci di nuovo in aereo, per iniziare questa missione tanto attesa. Saremmo dovuti partire in ottobre, ma lo scoppio delle proteste in Libano a partire dal 17 ottobre ci hanno costretto a rimandare la partenza di circa un mese.
Accade dunque che partiamo oggi, con una squadra diversa e rimaneggiata nella sua composizione. Il gruppo attuale è composto da sei persone e si è formato recuperando tre di noi già in partenza ad ottobre: Kamal (oculista), Teresa (assistente sociale) ed io che scrivo(dermatologa) a cui si sono unite Nunzia (internista), Chiara (mediatrice culturale) e Maria Luisa, la nostra otorinolaringoiatra, incidentata a settembre di frattura alla clavicola ed attualmente ancora col tutore (che gran coraggio ha avuto a scegliere di essere con noi, nelle condizioni in cui si trova!)
All’aeroporto ci attende Ibrahim, il nostro autista di fiducia, con un pulmino da 12 posti che abbiamo affittato per i 10 giorni di questa missione.
Partire in un periodo come questo, pieno di incertezze politiche nel Paese ed in una situazione che può esplodere da un momento all’altro, potrebbe essere stata una scelta poco saggia.
Il Libano è un paese armato, dove tutti possiedono armi e non hanno paura di usarle. Gran parte della popolazione ha ancora memoria della recente guerra civile che ha ridotto in macerie il Paese. La ricostruzione è durata anni e, benché oggi alcuni quartieri di Beirut non hanno nulla da invidiare alle moderne e ricche città occidentali, l’aria che si respira è di pace sospesa, pronta a dissolversi con un pretesto qualsiasi. Sembra sempre di doversi proteggere le spalle da un nemico invisibile e palpabile allo stesso tempo.
Ma sono tanti, troppi i motivi che mi hanno spinto a non rimandare oltre la partenza, tra cui la prosecuzione dell’iter per il riconoscimento sul territorio libanese, passaggio inderogabile per avere maggiori diritti e ampliare il nostro raggio di azione umanitaria, nonché della necessità di distribuire i numerosi farmaci in scadenza da destinare a chi ne può avere ancora bisogno.
In questa missione, con il sostegno dei Padri maroniti di Roma, lavoreremo a nord del Libano, nella regione dell’Akkar.
29 Novembre 2019
Giorno 2 – Verso Biblos
La giornata di ieri è cominciata a Beirut. Oltre alla possibilità di rimanere senza benzina (le pompe sono tutte chiuse a causa di uno sciopero e non riapriranno prima di domenica), la maggior difficoltà è la sistemazione dei bagagli nel pulmino, che non ha 12 posti come avevamo chiesto e che è a malapena sufficiente per noi volontari.
È grazie al supporto dei Padri Maroniti, soprattutto di padre Fadhi che la sera del primo giorno, dopo tutte le difficoltà, alloggiamo al Monastero dei Carmelitani di Kobayat, un antico edificio in pietra situato in una valle amena al confine nord con la Siria.
Padre Fadhi è un giovane maronita dal volto sorridente e gioviale, conosciuto già in Italia verso i primi di ottobre, quando stavo organizzando tutta la logistica ed i percorsi di questa missione.
Il responsabile del monastero, padre Michele, parla un italiano perfetto e a cena ci scambiamo volentieri due parole per parlare della situazione politica del Paese, delle sue narrazioni, del suo passato e del suo presente.
Oggi siamo diretti a Biblos, nell’ospedale “Nostra Signora del Soccorso” gestito dai Maroniti. L’ospedale appare grande e molto curato, situato su una collina prospiciente il mare, con una vista mozzafiato. La giornata assolata poi si presta ad accentuare i colori e profumi di questa terra che amo così tanto.
Ci presentiamo al direttore generale, padre Wissam Boury, con cui ero in contatto già prima della partenza. Nella sala ci attendono anche il direttore scientifico e il decano della Facoltà di Medicina dell’Università del Sacro Spirito. Si presenta a noi anche un giovane ginecologo, che ha accolto l’invito di unirsi a noi. Si chiama Jad e verrà accompagnato da uno specializzando di nome Abdallah. Dopo aver pranzato con loro alla mensa dell’ospedale, li salutiamo dandogli appuntamento per oggi, in prossimità del campo di Tel Abbas.
30 Novembre 2019
Giorno 3 – Tel Abbas
Tel Abbas è un campo siriano situato a nord del Libano, nella regione dell’Akkar, dove la Comunità Papa Giovanni XXIII è presente da diversi anni con Operazione Colomba, un’esperienza di convivenza di volontari italiani e profughi.
Jad e Abdallah (i giovani ginecologi) sono con noi, ed essendo la loro prestazione l’unica che richieda una particolare privacy, cominciano a visitare in una tenda messa a disposizione dalla proprietaria. Al termine del lavoro hanno fatto circa 20 visite, riscontrando in prevalenza patologie su base infettiva.
Il resto di noi volontari si apposta in un’unica costruzione simile ad un container utilizzato come classe scolastica e ognuno di noi sceglie per sé un angolo per visitare. I banchi fanno da scrittoio, in una situazione di strano adattamento e convivenza forzata tra tutti noi.
Andiamo avanti nelle visite per ore senza fermarci se non per una piccola pausa pranzo. Tra tutti mi colpisce un bambino di undici mesi, affetto da idrocefalia e già operato di shunt almeno sei volte con scarsi risultati. I genitori sembrano distrutti, soverchiati dai debiti contratti per le cure, oltre che dal dolore in sé. Chiedo loro se accetterebbero di portare il bimbo in Italia per la terapia: vengo a sapere che questo caso non è mai stato segnalato per i corridoi umanitari a S. Egidio.
Eppure, mi dico, pochi giorni fa sono arrivate più di 130 persone da Tel Abbas, proprio con un corridoio umanitario.
Padre Fadhi si rivela essere una figura essenziale all’interno del gruppo e si presta a svolgere ogni ruolo, dal traduttore alla mediazione culturale, all’approvvigionamento del cibo. Dopo pranzo Teresa e lui si chiudono in un’altra tenda e portano avanti il corso sulla disostruzione delle vie aeree ad un gruppo di donne e madri.
Lasciamo il campo verso le 16.30 , certi di farvi ritorno lunedì per completare ciò che è rimasto incompiuto (purtroppo però a Tel Abbas non riusciremo a farvi ritorno). Al termine della giornata di lavoro, si contano:
24 visite otorino;
31 visite oculistiche;
17 visite internistiche;
25 visite dermatologiche;
20 visite ginecologiche.
1 Dicembre 2019
Giorno 4 – Khebir Daoud pt.1
La giornata di oggi, su segnalazione di Padre Fadhi, viene dedicata ad un campo siriano di nome Khebir Daoud.
Una struttura in pietra ci accoglie, completamente disadorna e vuota di ogni suppellettile. Finora non mi era mai capitato di entrare in un posto dedicato alle visite completamente vuoto: perfetto per la privacy, ma senza neanche una sedia o tavolo.
Gli amici ginecologi, entrati ormai perfettamente in team ed agevolati dalla lingua, sono i primi a riprendersi dallo shock; scelgono una stanza, sistemano per terra le loro cose, l’ecografo su una loro sedia e il lettino pieghevole portato con fatica dall’Italia viene aperto con attenzione, perché appena riparato. Ma proprio nel corso della prima visita, dalla stanza dei ginecologi giunge un tonfo: il lettino si è rotto, cadendo a terra, e a terra vi rimarrà per il resto della giornata.
Dopo le primissime visite vengo contattata per la segnalazione di un abuso sessuale su minore rilevato dai ginecologi su paziente con frequenti cistiti ricorrenti. Una bambina di sei anni abusata dal padre, come viene confermato anche dalla madre. Siamo tutti profondamente turbati e con padre Fadhi decidiamo di parlarne con il responsabile del campo.
Maria Luisa e Nunzia condividono una stanza, io ne occupo un’altra senza tavolino e Kamal lavora nello di un corridoio, l’unico con presa di corrente per l’ottotipo.
Poco dopo assistiamo ad una scena di violenza incontrollata proveniente dalla sala d’attesa, dove per poco non si arriva alle mani, perché qualcuno era stato accusato di non rispettare la fila. Un degrado terribile e la miseria senza controllo innescano dei meccanismi deleteri, che a fatica siamo riusciti a contenere.
Verso le diciotto interrompiamo e rientriamo al monastero, ove padre Fadhi celebra una S. Messa per noi, alla quale partecipiamo in quattro. Una cappella semplice ed essenziale, dove cinque anime hanno condiviso le emozioni di un giorno difficile, avvolto da immagini di bambini dai volti sporchi e i piedi nudi, di violenza e rassegnazione.
Il vero punto dolente del nostro lavoro, che ad oggi non ha ancora trovato una soluzione concreta ed efficace, riguarda i casi seri che rileviamo; essere in prima linea ed intercettare casi gravi a cui si sa benissimo di non poter dare risposta, fa aumentare la frustrazione ed è un grande esercizio continuare a ritrovare in sé la motivazione per andare avanti.
2 Dicembre 2019
Giorno 5 – Khebir Daoud pt. 2
Oggi ritorniamo a Khebir Daoud. Tanti gli abitanti di quel campo diffuso su un territorio ampio, e subito cominciamo a lavorare tutti, abituati ormai alle postazioni del giorno prima.
Nel primissimo pomeriggio lasciamo l’Akkar per rientrare a Beirut, dove recuperiamo il resto delle valigie a casa di Lina, salutiamo la nostra mediatrice Chiara e ripartiamo. Direzione: valle della Beekaa, dove saremo ospiti dei Gesuiti di Taanayel. Il viaggio dura circa sei ore, scorrevole fuori città, ma estremamente difficile a Beirut, essendo nell’ora di punta.
Il grande convento dei Gesuiti ci accoglie nella sua magnificenza col volto dell’austero Priore, padre Michel, che abbiamo conosciuto nella missione precedente. Rivedo Mansour, un burbero omone che mi viene incontro e mi saluta con un abbraccio. Dopo cena incontriamo padre Samyr, responsabile della casa e con il quale ho preso contatto da Roma per prenotare il soggiorno. Anche lui parla un italiano scorrevole e la comunicazione e facile e fraterna.
Andiamo presto a dormire, stracotti di fatica della giornata.
Nel complesso, a Khebir Daoud sono state compiute:
58 visite otorino;
53 visite internisti che;
51 visite dermatologiche;
53 visite oculistiche;
26 visite ginecologiche.
3 Dicembre 2019
Giorno 6 – El Faour e Taanayel
La Bekaa è il territorio che conosciamo meglio.
Grazie alla collaborazione di Mohamed Salemeh di MAPS, oggi saremo presenti in due scuole: El Faour al mattino e Sednayeh nel pomeriggio. Teresa sarà invece accompagnata nella scuola di Hamdanieh, dove terrà il corso agli insegnanti sulla disostruzione delle vie aeree. Ancora una volta un programma pieno, ma siamo qui per questo e siamo tutti motivati.
Nella sede incontriamo subito un dirigente di MAPS, Vale Brian, inglese di 48 anni che ha deciso di lasciare il suo lavoro di insegnante in Inghilterra per seguire questi bambini. Brian ci seguirà tutto il giorno, appuntando i nostri commenti e tutte le osservazioni fatte sotto il profilo sanitario e ambientale.
Al mattino, nella scuola di El Faour ci dividiamo in due diversi container. La condivisione dello spazio con Kamal, l’oculista, mi permette di osservare quanti casi di bimbi ipovedenti assolutamente sconosciuti vengano rilevati. Vedo molte prescrizioni di lenti.
I bambini sono tanti e tutti vestiti poco, spesso senza calzature o calzini e tutti con manine congelate.
Tra i casi importanti, quello di un bimbo anoressico (che verrà segnalato a Brian per assistenza psicologica) che ha smesso di mangiare da quando ha visto il padre morire sotto una bomba.
Per non parlare delle numerose ustioni che mi è capitato di vedere e curare da queste parti; e quasi tutte formano dei cheloidi orribili.
Appena comincio a lavorare, tra i primi bambini che arrivano, se ne presenta che dichiara di aver avuto ustioni al braccio sinistro. L’obiettività mi incuriosisce tanto ed approfondisco con qualche domanda: sembra si tratti di cicatrici da ustione chimica. Mi confronto con Brian che conferma il mio sospetto: sono lesioni autoindotte. Gravi problemi psicologici che richiedono attenzione e psicoterapia. Andiamo avanti e man mano che diventa buio aumenta il disagio di star seduti là senza alcun riscaldamento. Mi colpiscono poi i problemi circolatori, i geloni e le manine screpolate della popolazione infantile.
Aumenta la frustrazione di non poter fare abbastanza. I farmaci ad hoc che portiamo sono quasi terminati e le quantità di prodotto necessario per ciascuno va ben oltre ciò di cui disponiamo.
Verso le 17.30 i miei pazienti sono terminati. Raggiungo Maria Luisa, ancora al lavoro. La trovo impegnata con un siringone, sotto l’unica luce presente nella stanza, a fare un lavaggio del condotto uditivo in un bimbo, intenta ad estrarre un corpo estraneo dal suo orecchio: si trattava di una punta di matita.
Insisto per andar via, dato il disagio del freddo, ma i bimbi continuano ad arrivare. Mi guardo intorno e vedo Ibrahim, l’autista, indicarmi Mahmoud, un bambino che è venuto solo dal campo e che era lì in attesa da almeno un’ora. Non possiamo andar via senza aver visto anche lui.
Sembra che abbia un forte dolore ad un orecchio. Appena Maria Luisa lo visita, la sorpresa: ha un timpano perforato da un’otite purulenta. Ci guardiamo tutti costernati nella stanza e restiamo senza parole. Per fortuna ci siamo trattenuti ed abbiamo portato a compimento questa visita.
È notte inoltrata quando si chiude il cancello del recinto della scuola di Saadnyel. Anche questa volta è finita, su tutto l’emozione che, nonostante la mancanza di calzature e vestiti e riscaldamento, le condizioni di salute di questi bambini siano molto migliorate dalla prima volta, nel 2016, che questa esperienza cominciò.
4 Dicembre 2019
Giorno 7 – Barrelies
Giorno dedicato al campo di Barrelies, a noi molto caro. Lasciamo il convento un po’ più tardi al mattino e dedichiamo qualche tempo al riordino delle nostre cose. Dopo giorni di lavoro c’è un gran disordine tra le medicine e questo ci ostacola.
Arrivando a destinazione, quasi non riconosciamo l’ingresso del campo; l’insediamento è cambiato sensibilmente nell’arco di pochi mesi. Il responsabile, Nabil, ci viene incontro salutandoci e ci fa notare come il proprietario di un appezzamento di terra abbia ritirato la concessione e le tende siano state rimosse.
Non sappiamo dove sistemarci noi quattro medici; la grande stanza comunitaria non esiste più perché abitata da una famiglia dopo le vicende del ridimensionamento.
Maria Luisa e Nunzia optano per visitare all’aperto e si sistemano in un angolo illuminato dal sole: due piccoli tavolini e qualche sedia, ecco il loro ambulatorio. Kamal, dopo un tentativo fallito di visitare nella Moschea che prevedeva di stare piedi nudi su tappeti bagnati, opta per il corridoio che conduce alla medicheria, dove almeno può usare le scarpe. Io mi sistemo nella solita stanzetta, oggi più che mai umida e immersa in un fetido odore di fogna.
Le condizioni di visita molto precarie, aggravate dal fatto di non avere alcuna mediatrice culturale con noi. L’unico a poter visitare senza problemi è Kamal, che parla l’arabo. Maria Luisa e Nunzia si dividono l’aiuto di Ibrahim e la sottoscritta per poco non collassa nell’angusta stanzetta dove ha grandi difficoltà di comunicazione. All’improvviso, però, un’adolescente molto intelligente si siede vicino a me e, apprese le domande chiave, comincia a farmi da segretaria. La cosa sorprendente è che questa ragazzina non parla l’inglese o l’italiano, ma comprende con l’intuito e tramite la comunicazione non verbale. Il suo aiuto, empatico e fattivo, mi permette di concludere circa venticinque visite. Noi tutti riusciamo a lavorare e concludere un bel numero di consulti, seppur in condizioni di estremo disagio.
5 Dicembre 2019
Giorno 8 – Wavel
Questo giorno dedicato al campo palestinese di Wavel, situato nella zona di Baalbek. E’ una tappa che ritengo essenziale in questa missione perché la scorsa volta, per motivi di sicurezza, siamo dovuti andar via senza concludere nulla poco dopo il nostro arrivo per via di una sparatoria avvenuta non molto lontano da dove ci trovavamo.
Questa volta, quindi, mi è sembrato necessario giungere fin qui per completare ciò che non è stato possibile concludere a giugno.
Al nostro arrivo ci scambiamo saluti affettuosi con Aziza, la responsabile del campo, e ci sistemiamo in tre stanze diverse, arredate con scrivanie e comode sedie e con stufe funzionanti.
Fa buio presto in inverno e la prudenza vuole che si affronti la strada del ritorno, circa 60 km, in condizioni di buona illuminazione. Lasciamo quindi la scuola che ci ha ospitato, dopo aver condiviso uno pasto veloce offerto da Aziza. Non ho fatto in tempo a compiacermi per il lavoro svolto, dove ognuno ha fatto più di 30 visite e nell’insieme oltre cento, né per la puntualità con cui siamo riusciti a ripartire, che improvvisamente il pulmino si ferma. Inizialmente sembra si tratti della batteria, ma non riparte neanche con l’aiuto di un meccanico che, situato nella carreggiata opposta, ci porta i morsetti per collegare la batteria. Niente da fare: si tratta del motorino di avviamento. La cosa si complica e una sorta di timore aleggia su noi tutti, soprattutto in vista del buio imminente. Poi il garzone del meccanico, un quattordicenne, si sbraccia, comincia a maneggiare il motore, smonta il pezzo, e riesce a ripararlo in poco tempo. Riprendiamo, sollevati, la strada per il monastero.
7 Dicembre 2019
Il rientro in Italia – Riflessioni
E’ il giorno del rientro in Italia. Mi dispiace, perché di sicuro potremmo fare di più se rimanessimo. Se ripenso ai giorni appena trascorsi, mi sembra tuttavia un miracolo esser riusciti a portare a termine quasi 700 visite specialistiche nelle condizioni ostili di quei campi. Certo non è la medicina sofisticata degli ospedali, ma comunque si deve iniziare sempre dal primo livello, e noi di persone ne abbiamo davvero tante.
Questa mattina, mentre sorseggio il caffè nella stanza del monastero, sono pervasa da sentimenti di gratitudine per la vita che ci ha aiutato facendoci incontrare le persone giuste che hanno fatto in modo che tutto questo lavoro fosse possibile. Come dicevano i latini, “Similes cum similibus facillime congregantur”. Tutti hanno partecipato a modo proprio e sono stati parte di una catena.
Colgo nel volto di Ibrahim, nel momento dei saluti, una profonda insicurezza per il futuro ed il suo abbraccio mi trasmette tutto il dolore di questo popolo, da sempre avamposto e ponte tra Oriente ed Occidente, attualmente vittima della sua stessa corruzione e ospitalità verso i vicini fratelli. I libanesi vivono una grande crisi economica in questo momento e la loro terra rischia di divenire nuovamente terreno di battaglia e guerra civile.
Lasciamo la dogana tutti insieme e subito, guardandomi indietro, provo nostalgia. A presto, torneremo per dare il nostro aiuto, anche se sarà una goccia nel mare.