Le nostre missioni
La novità della nostra esperienza è la Medicina di prossimità, ispirata dall’osservazione che i poveri del mondo non sono in grado di recarsi di persona nei centri medici e, meno che mai, comprare farmaci.
Dal 2017 organizziamo missioni e attiviamo progetti sul campo per rispondere a queste fondamentali necessità socio-sanitarie.
La grande crisi dei farci si aggiunge a quella alimentare e della benzina. SGA riscontra difficoltà nell'operatività medica per la carenza di farmaci.
SGA per la prima volta riesce a trovare le protezioni per operare anche al sud del Libano. Zona presidiata dalle truppe dell'Unifil.
SGA collabora con una asssociazione di medici libanesi la Crossing Together

Haigazian University
giovedì siamo stati invitati a parlare all’Università degli studi sociali «Haigazian University fondata nel 1955 a Beirut della nostra esperienza per una breve lettura con immagini. Altri aiuti in pacchi vestiti sono stati donati e distribuiti e questa missione è stata l’occasione di riportare i referti dei pap test effettuati nella missione di settembre.

La prima missione in Libano dopo l’inizio del COVID e dopo l’esplosione al porto di Beirut.
Sappiamo che la situazione che troveremo in Libano è difficile. La banca mondiale stima che quella Libanese sia nelle top 3 delle peggiori crisi economiche dal 1850. Dal 2018 il paese attraversa una recessione che ha spazzato via il 40% del reddito pro capite. L’inflazione si attesta sul 90% e i prezzi dei beni alimentari sono aumentati di oltre il 220%: il 50% dei libanesi vive in povertà e il sistema sanitario è al collasso. Manca carburante e questo significa elettricità contingentata.
Durante i 20 giorni che passeremo in Libano visitando le persone in diversi campi profughi e in monasteri, saremo testimoni delle difficoltà che vive la popolazione. Faremo i conti con la mancanza di benzina e la penuria di elettricità; alcune sere ceneremo al buio e visiteremo i pazienti alla luce dei cellulari che ricaricheremo con estrema difficoltà.
La nostra missione comincia con la visita a Saadnayel, alMarj, e Rahma Camp nella Bekaaaa Zahle. La mattina è dedicata ai bambini nelle scuole annesse ai campi profughi (quasi tutti siriani); nel pomeriggio ci dedichiamo prevalentemente alle famiglie libanesi che giungono numerose al monastero di Jasu el Fadi.
Il 19 settembre ci spostiamo nella zona di Biblos e ad Annayah visiteremo in team con la collega dell’Università “La Sapienza”, giunta in libano per lo screening del campo della cervice uterina. Come ultima tappa ci aspetta la regione dell’Akkar dove la situazione di povertà è ancora più marcata. Visiteremo nei campi profughi i siriani, in prevalenza, ma anche i libanesi, preparando il nostro intervento futuro anche tra la popolazione libanese. Qui toccheremo con mano l’impossibilità di reperire i farmaci nonostante avessimo i soldi per l’acquisto perché le farmacie ne sono sprovviste. Visitiamo in condizioni precarie, con un caldo torrido: le mascherine che ci tormentano proteggendoci dal COVID, ci riparano anche dalle numerose mosche. Visitiamo bambini mal nutriti e pallidi, con deficit di accrescimento, tosse e febbre. Spesso ci avvicinano con scatole di farmaci di cui hanno bisogno; talvolta, rovistando, troviamo dei similari ma, per lo più, è alta la frustrazione nel dover negare prodotti salvavita.
Sono stati giorni faticosi sia fisicamente che emotivamente. Ci ha ripagato la notizia, giunta qualche giorno fa, che un paziente affetto da una patologia grave è stato ricoverato e poi dimesso grazie al nostro interessamento e ora gode di un’apparente buona salute. Un grazie speciale va a Padre Marun, e alla sua associazione “Insieme”, che ci ha sopportato e supportato per tutto il percorso, a Padre Michel della Caritas libanese che, con i suoi collaboratori, ci ha permesso di trattare casi più gravi e a Padre Tannous che ci ha ospitato nel suo convento e ci ha fatto sentire a casa. Ultimo, ma non per ultimo, al nostro autista Firaz che con pazienza, nonostante la mancanza di carburante, ci ha accompagnato in sicurezza, sempre presente con il suo occhio protettivo su di noi.

SHADOW FEAR BARRELS are not sick…
They are all healthy but WON, they are almost all handsome and strong young people united by various and many experiences of fragility, abuse and violence that have led them to the last border to be crossed for their goal: EUROPE. All in need of attention to relieve the PAIN of PROSTRATION AFTER GAME, when they return to the base beaten by a beat.

Il grido d’aiuto arriva dalla foresta
Bihac’
6424 km. Se su Google maps cerchiamo la distanza dal Pakistan/Afghanistan/Etiopia a Bihac’, in Bosnia ed Erzegovina, l’applicazione indica 6424/6970 km. La rotta balcanica. Così oggi viene chiamata la strada che le persone, che scappano dalla guerra o da situazioni di vita indegne per l’uomo, devono intraprendere per realizzare il desiderio di una vita degna, affascinati dall’Europa, ma più probabilmente solo in cerca di pace.
Bihac’ è la città confine per l’ingresso in Europa. Qui, queste persone vengono bloccate. Qui SGA ha effettuato due missioni nel 2021.
Le persone vengono raccolte in campi profughi, che più che centri di accoglienza sembrano essere centri di detenzione a lungo termine.
Al nostro arrivo, lo scorso 21 febbraio, i padri gesuiti di JRS “Jesuite Refuge Service”, nostri mediatori culturali per la comunicazione con i rifugiati e con la polizia, tutte le volte che siamo stati fermati come prima tappa per effettuare le prime visite mediche, ci hanno accompagnato in uno di questi centri, finanziato dalla comunità Europea, quindi da tutti noi. Lo stupore è stato il divieto di ingresso imposto a tutti noi, nuovi arrivati, e il divieto di scattare foto anche dall’esterno della struttura. In questo luogo, principalmente utilizzato per le famiglie, nascono e crescono bambini, ci si ferma, a volte per rassegnazione, a volte per sfinimento. Lipa sarebbe voluto essere invece il secondo centro al quale saremmo voluti andare. Si trova in cima una collina, il primo centro abitato dista 18km. Il centro accoglie migliaia di persone. Ma la corruzione delle associazioni accreditate ad entrare a Lipa (sorge il dubbio se è una sola l’associazione ad avere il permesso), non ci ha permesso nemmeno di intraprendere il viaggio verso Lipa.
Il grido di aiuto arriva dalla foresta.
Bihac’ è attraversata dalle limpide acque del fiume Una e circondata sino al confine della Croazia dal “Parco nazionale della UNA”. Ed è all’interno di questi boschi tra gli alberi o negli edifici abbandonati dalla guerra dei Balcani, che si rifugiano la maggior parte delle persone.
Per introdurci nei boschi o edifici in sicurezza, siamo stati ogni volta accompagnati dai mediatori JRS, anche perché conoscere l’esatta posizione dei diversi accampamenti o ottenere la fiducia dei rifugiati sarebbe molto difficile se ci si muovesse autonomamente. Inoltre, la complicata situazione politica della Bosnia rende molto complicato il rapporto con le istituzioni ed i dialoghi con le forze dell’ordine.
Le condizioni igieniche all’interno dei diversi accampamenti sono pessime. L’utilizzo dell’acqua del fiume durante l’inverno è praticamente impossibile viste le temperature bassissime e la difficoltà ad avere ricambi di abiti puliti peggiora inevitabilmente le cose.
Nella prima missione ci siamo ritrovati a dover fronteggiare un’epidemia di Scabbia diffusa in quasi tutti gli accampamenti.
Contestualmente abbiamo effettuato educazione sanitaria ai mediatori JRS sul riconoscimento della scabbia e sull’utilizzo dei farmaci per curarla, farmaci donati alla fine del nostro operato per dare continuità all’operato della nostra missione una volta andati via.
"THE GAME"
Il Gioco: così è chiamato il tentativo da parte dei rifugiati per riuscire ad entrare in Europa. L’obiettivo: è quello di scavalcare le montagne che li separano dalla Croazia per poi raggiungere la Slovenia o Trieste. Per molti è praticamente impossibile. Abbiamo conosciuto persone che da anni invano tentavano il Game e che, ogni volta, venivano fermate sui monti dalla polizia croata che li intercettava con i termo scanner, o fermati in Italia…in entrambi i casi, rispediti a Bihac, nei campi di Lipa o nei boschi. Essere rispediti indietro vuol dire, per i più fortunati, curare le vesciche o verruche e cercare di trovare un nuovo paio di scarpe e dei vestiti (eh si, vengono spogliati e rimandati al mittente!!); per i più sfortunati, invece, vuol dire ritrovarsi con forti trauma cranici o braccia o gambe o spalle o ginocchia rotte, in maniera scomposta, perché, non basta essere spogliati e rispediti indietro, ma vengono intenzionalmente picchiati, il più forte possibile, per disincentivarli a riprovare il Game. Riuscire poi a Bihac’ a fare una radiografia per un profugo è praticamente impossibile. Gli ospedali pubblici non li accettano, nelle cliniche private, se si riesce a trovare l’ortopedico si parla di spendere dai 100€ in su per radiografia. Ci siamo quindi ritrovati a dover effettuare fasciature di fortuna e curare trauma cranici al di più con la speranza che tutto potesse risolversi nel migliore dei modi.
La speranza.
Però per molti, tra queste famiglie, ragazze o ragazzi, vedere un medico che è arrivato dall’Italia per prendersi cura di te, sapere perché tossisci, perché sei pieno di bolle, perché hai dei vuoti di memoria, avere la possibilità di chiedere ad un medico cosa assumere per poter effettuare il Game, ricevere delle vitamine o al più del paracetamolo, vuol dire speranza: vuol dire non far spegnere quella fede che da più di 6000 km ti porti dentro con il sogno di trovare la pace, un lavoro ed avere una famiglia ed una vita dignitosa; vuol dire continuare a nutrire fiducia nel mondo e nelle persone, con la consapevolezza che c’è del buono nell’uomo e non solo un manganello che ti ha fatto del male e rispedito laddove non vorresti più stare da anni.
Entrare in Bosnia, alla luce del recente caos politico, che auspichiamo si risolva presto e non porti di nuovo al peggio un territorio che ha trovato la pace solo da pochi anni, per portare farmaci o vestiti e cibo, sarà sempre più complicato. Non per questo noi di SGA smetteremo di provare, per quel poco che possiamo, a portare quella luce di speranza, quella piccola luce di amore che se custodita in ogni uomo può contribuire alla crescita del bene comune ed al rispetto della dignità di ogni uomo.
BIHAC
Dormiamo nella casa delle suore stravolti dalla stanchezza del viaggio.
La mattina si riparte con destinazione BIHAC, non senza aver modificato la disposizione delle medicine all’interno del pulmino. Trasportiamo una vera montagna di farmaci, alcuni usati nella terapia del dolore che difficilmente avremmo potuto giustificare anche alle nostre frontiere.
Ci precede la macchina di Stanko che passa la frontiera senza problemi,noi veniamo fermati ma per fortuna l’ufficiale di frontiera apre una valigia e trovando dei vestiti, ci lascia andare.
Passata la dogana intorno alle 13 andiamo direttamente in un campo ufficiale gestito dallo IOM ,benché forniti di un tesserini a sigla JRS/volontari non possiamo entrare, ci viene intimato di non fare fotografie, di non avvicinarci alla rete di recinzione e ci viene impedito ogni contatto fisico e verbale adducendo il Covid19 come scusa. Siamo sotto controllo,da tutte le parti sbucano persone che osservano e spiano ogni nostro movimento.
La mattina dopo abbiamo un appuntamento con i mediatori culturali, li troviamo impegnati ad approvvigionarsi di cose che attraverso il tam tam telefonico sanno che saranno utili nei vari insediamenti,raggiungiamo con loro una località in campagna chiamata “case bianche”ci sediamo all’aperto vicino ad un insediamento di tende e cominciamo a visitare,soprattutto pakistani e qualche afgano tutti giovani …forti, e direi anche in salute. In comune hanno una cosa:tutti hanno tentato il GAME( (così chiamano il tentativo di attraversare la frontiera croata) …e se sono lì è perché sono stati rispediti indietro dopo aver subito vessazioni e torture tra cui la spoliazione completa.
Lasciato questo posto ci rechiamo in un edificio in città dove ci stanno aspettando. Cominciamo a visitare in una stanza al primo piano, senza finestre e con materiali di risulta da tutte le parti uno squallore terribile.
Su una parete qualcuno ha scritto “ solo se passi attraverso le tenebre puoi vedere la luce”
In questa casa abbandonata visitiamo tante persone molte con problemi respiratori.
In questa casa abbandonata visitiamo tante persone molte con problemi respiratori. Il giorno dopo ci scortano in un insediamento isolato dove troviamo 6 persone in procinto di partire per il game ci chiedono medicine per affrontare i dolori ,vogliono essere aiutati a sopportare la fatica, Claudio offre loro un aiuto insperato fornendogli del cortisone.
Non avrei mai creduto di utilizzare il cortisone per uso dopante…ma, così è, si arriva anche a questo per essere fratelli tutti…!
Dopo aver lasciato questo piccolo insediamento ci rechiamo a circa 30 Km da Bihac, qui troviamo un gruppo di giovani pakistani appena respinti da un Game e pronti a ripartire nel più breve tempo possibile,uno presenta i postumi di una frattura costale con un callo osseo esuberante.
Lamenta dolore ed ha un volto sofferente rimane deluso quando gli consiglio di non partecipare al Game che partirà il giorno seguente in quanto non sarebbe in grado di sopportarne la fatica.
Ritorniamo nella sede di JRS Claudio propone di pagare con dei fondi che alcuni amici gli hanno affidato la TAC cerebrale di un giovane che dopo un aver riportato un trauma cranico durante un Game lamenta amnesia, cefalea ed instabilità.
La giornata è finita andiamo a riposare. Il giorno successivo siamo affidati a ISHAM un mediatore culturale libico, che mi conferma una cosa che avevo intuito:non siamo graditi e la nostra presenza deve passare inosservata il più possibile dobbiamo esercitarci ad essere trasparenti ed a operare nell’ombra. Ci porta in una fabbrica abbandonata ora occupata dove avremmo dovuto trovare300 persone al nostro arrivo ci apparirà vuota perché poche ore prima era stato compiuto uno sgombero violento. Nel pomeriggio Nunzia ci lascia e arrivano il marito di Barbara e Alessandro della Porta il video maker .Nei giorni seguenti continuiamo le visite e di ripetono gli stessi scenari:medicazioni di vesciche ai piedi, scabbia. Richieste di farmaci antidolorifici per attutire contusioni e mialgie da stress. L’ultima sera di permanenza a BIHAC ci concediamo una cena al ristorante. Il tavolino tondo facilita l’incontro e le chiacchiere. Siamo stanchi ma l’occasione si presta ad alcune considerazioni. Sembra che il denominatore comune di questa missione siano le percosse: passate (ematomi, traumatismi, fratture)presenti (sindrome da stress tremori sguardo fisso nel vuoto) e future alle quali ci si prepara facendo scorte di antidolorifici. Abbiamo incontrato persone tormentate quotidianamente dall’idea fissa di partire per il game, di superare la frontiera, combattuti tra la speranza e il fallimento.

We were about to make air tickets for the month of March when suddenly the world quarantine blocked us and the “lockdown” kept us at home in total frustration and helplessness.
We did not give up and tried to participate in the CEI financing project for COVID. By forming a group of our remote participants, working as a team, we were able to put together this project which, unfortunately, did not have the recognition - albeit very interesting - not having, our association, the essential requirements (not having passed the three legal years from constitution to be an accepted and considered association). Once the funding was trashed, on 4 August we are involved and dismayed following the terrible explosion in Beirut and we take action immediately, with the scarce forces of August, in order to activate a dispatch of humanitarian parcels: drugs, medications, clothes and shoes as the first consignments. We immediately collide with the customs post. Our humanitarian parcels are stopped for about two months at the Beirut airport without passing through customs. We will soon find other supportive channels to get our contribution. We therefore identify the financing projects for our representatives in Lebanon: Father Fadi, to whom we send an initial sum destined for charitable interventions, and Father Marun, with whom we collaborate for the realization of a workshop to be held, later, in October and in which gifts and comforting sweets will be distributed to children and meat purchase vouchers to adults.project for the distribution of laying hens in the countryside and our shoe project by collecting second-hand winter shoes in Italy and distributing them to school children in Syrian refugee camps on containers in the Bekaa valley that we had observed, during our last mission - December 2019- , be devoid of it.
Finally another good result at the end of the year: ABIR . Following our report and the paperwork that lasted two long years, Abir, a Syrian widow we met in the EL Faur camp, at the beginning of our experiences in Lebanon, in 2016, and her three minor children manage to reach Italy. , with the first post Covid corridor of Sant'Egidio, in December 2020. After arriving at the airport, and following the fifteen-day quarantine, Abir and his children go to a residential center in Sant'Egidio, under their check. Sant'Egidio continues to follow them. At the moment the children are in school and are learning Italian. What struck me so much about this woman was her dignity and her beauty.

E’ il giorno del rientro in Italia. Mi dispiace, perché di sicuro potremmo fare di più se rimanessimo.
Se ripenso ai giorni appena trascorsi, mi sembra tuttavia un miracolo esser riusciti a portare a termine quasi 700 visite specialistiche nelle condizioni ostili di quei campi. Certo non è la medicina sofisticata degli ospedali, ma comunque si deve iniziare sempre dal primo livello, e noi di persone ne abbiamo davvero tante.
Questa mattina, mentre sorseggio il caffè nella stanza del monastero, sono pervasa da sentimenti di gratitudine per la vita che ci ha aiutato facendoci incontrare le persone giuste che hanno fatto in modo che tutto questo lavoro fosse possibile. Come dicevano i latini, “Similes cum similibus facillime congregantur”. Tutti hanno partecipato a modo proprio e sono stati parte di una catena.
Colgo nel volto di Ibrahim, nel momento dei saluti, una profonda insicurezza per il futuro ed il suo abbraccio mi trasmette tutto il dolore di questo popolo, da sempre avamposto e ponte tra Oriente ed Occidente, attualmente vittima della sua stessa corruzione e ospitalità verso i vicini fratelli. I libanesi vivono una grande crisi economica in questo momento e la loro terra rischia di divenire nuovamente terreno di battaglia e guerra civile.
Lasciamo la dogana tutti insieme e subito, guardandomi indietro, provo nostalgia. A presto, torneremo per dare il nostro aiuti, anche se sarà una goccia nel mare.

Questo giorno dedicato al campo palestinese di Wavel, situato nella zona di Baalbek.
E’ una tappa che ritengo essenziale in questa missione perché la scorsa volta, per motivi di sicurezza, siamo dovuti andar via senza concludere nulla poco dopo il nostro arrivo per via di una sparatoria avvenuta non molto lontano da dove ci trovavamo.
Questa volta, quindi, mi è sembrato necessario giungere fin qui per completare ciò che non è stato possibile concludere a giugno.
Al nostro arrivo ci scambiamo saluti affettuosi con Aziza, la responsabile del campo, e ci sistemiamo in tre stanze diverse, arredate con scrivanie e comode sedie e con stufe funzionanti.
Fa buio presto in inverno e la prudenza vuole che si affronti la strada del ritorno, circa 60 km, in condizioni di buona illuminazione. Lasciamo quindi la scuola che ci ha ospitato, dopo aver condiviso uno pasto veloce offerto da Aziza. Non ho fatto in tempo a compiacermi per il lavoro svolto, dove ognuno ha fatto più di 30 visite e nell’insieme oltre cento, né per la puntualità con cui siamo riusciti a ripartire, che improvvisamente il pulmino si ferma. Inizialmente sembra si tratti della batteria, ma non riparte neanche con l’aiuto di un meccanico che, situato nella carreggiata opposta, ci porta i morsetti per collegare la batteria. Niente da fare: si tratta del motorino di avviamento. La cosa si complica e una sorta di timore aleggia su noi tutti, soprattutto in vista del buio imminente. Poi il garzone del meccanico, un quattordicenne, si sbraccia, comincia a maneggiare il motore, smonta il pezzo, e riesce a ripararlo in poco tempo. Riprendiamo, sollevati, la strada per il monastero.

Giorno dedicato al campo di Barrelies, a noi molto caro.
Lasciamo il convento un po’ più tardi al mattino e dedichiamo qualche tempo al riordino delle nostre cose. Dopo giorni di lavoro c’è un gran disordine tra le medicine e questo ci ostacola.
Arrivando a destinazione, quasi non riconosciamo l’ingresso del campo; l’insediamento è cambiato sensibilmente nell’arco di pochi mesi. Il responsabile, Nabil, ci viene incontro salutandoci e ci fa notare come il proprietario di un appezzamento di terra abbia ritirato la concessione e le tende siano state rimosse.
Non sappiamo dove sistemarci noi quattro medici; la grande stanza comunitaria non esiste più perché abitata da una famiglia dopo le vicende del ridimensionamento.
Maria Luisa e Nunzia optano per visitare all’aperto e si sistemano in un angolo illuminato dal sole: due piccoli tavolini e qualche sedia, ecco il loro ambulatorio. Kamal, dopo un tentativo fallito di visitare nella Moschea che prevedeva di stare piedi nudi su tappeti bagnati, opta per il corridoio che conduce alla medicheria, dove almeno può usare le scarpe. Io mi sistemo nella solita stanzetta, oggi più che mai umida e immersa in un fetido odore di fogna.
Le condizioni di visita molto precarie, aggravate dal fatto di non avere alcuna mediatrice culturale con noi. L’unico a poter visitare senza problemi è Kamal, che parla l’arabo. Maria Luisa e Nunzia si dividono l’aiuto di Ibrahim e la sottoscritta per poco non collassa nell’angusta stanzetta dove ha grandi difficoltà di comunicazione. All’improvviso, però, un’adolescente molto intelligente si siede vicino a me e, apprese le domande chiave, comincia a farmi da segretaria. La cosa sorprendente è che questa ragazzina non parla l’inglese o l’italiano, ma comprende con l’intuito e tramite la comunicazione non verbale. Il suo aiuto, empatico e fattivo, mi permette di concludere circa venticinque visite. Noi tutti riusciamo a lavorare e concludere un bel numero di consulti, seppur in condizioni di estremo disagio.

La Bekaa è il territorio che conosciamo meglio.
Grazie alla collaborazione di Mohamed Salemeh di MAPS, oggi saremo presenti in due scuole: El Faour al mattino e Sednayeh nel pomeriggio. Teresa sarà invece accompagnata nella scuola di Hamdanieh, dove terrà il corso agli insegnanti sulla disostruzione delle vie aeree. Ancora una volta un programma pieno, ma siamo qui per questo e siamo tutti motivati.
Nella sede incontriamo subito un dirigente di MAPS, Vale Brian, inglese di 48 anni che ha deciso di lasciare il suo lavoro di insegnante in Inghilterra per seguire questi bambini. Brian ci seguirà tutto il giorno, appuntando i nostri commenti e tutte le osservazioni fatte sotto il profilo sanitario e ambientale.
Al mattino, nella scuola di El Faour ci dividiamo in due diversi container. La condivisione dello spazio con Kamal, l’oculista, mi permette di osservare quanti casi di bimbi ipovedenti assolutamente sconosciuti vengano rilevati. Vedo molte prescrizioni di lenti.
I bambini sono tanti e tutti vestiti poco, spesso senza calzature o calzini e tutti con manine congelate.
Tra i casi importanti, quello di un bimbo anoressico (che verrà segnalato a Brian per assistenza psicologica) che ha smesso di mangiare da quando ha visto il padre morire sotto una bomba.
Per non parlare delle numerose ustioni che mi è capitato di vedere e curare da queste parti; e quasi tutte formano dei cheloidi orribili.
Appena comincio a lavorare, tra i primi bambini che arrivano, se ne presenta che dichiara di aver avuto ustioni al braccio sinistro. L’obiettività mi incuriosisce tanto ed approfondisco con qualche domanda: sembra si tratti di cicatrici da ustione chimica. Mi confronto con Brian che conferma il mio sospetto: sono lesioni autoindotte. Gravi problemi psicologici che richiedono attenzione e psicoterapia. Andiamo avanti e man mano che diventa buio aumenta il disagio di star seduti là senza alcun riscaldamento. Mi colpiscono poi i problemi circolatori, i geloni e le manine screpolate della popolazione infantile.
Aumenta la frustrazione di non poter fare abbastanza. I farmaci ad hoc che portiamo sono quasi terminati e le quantità di prodotto necessario per ciascuno va ben oltre ciò di cui disponiamo.
Verso le 17.30 i miei pazienti sono terminati. Raggiungo Maria Luisa, ancora al lavoro. La trovo impegnata con un siringone, sotto l’unica luce presente nella stanza, a fare un lavaggio del condotto uditivo in un bimbo, intenta ad estrarre un corpo estraneo dal suo orecchio: si trattava di una punta di matita.
Insisto per andar via, dato il disagio del freddo, ma i bimbi continuano ad arrivare. Mi guardo intorno e vedo Ibrahim, l’autista, indicarmi Mahmoud, un bambino che è venuto solo dal campo e che era lì in attesa da almeno un’ora. Non possiamo andar via senza aver visto anche lui.
Sembra che abbia un forte dolore ad un orecchio. Appena Maria Luisa lo visita, la sorpresa: ha un timpano perforato da un’otite purulenta. Ci guardiamo tutti costernati nella stanza e restiamo senza parole. Per fortuna ci siamo trattenuti ed abbiamo portato a compimento questa visita.
È notte inoltrata quando si chiude il cancello del recinto della scuola di Saadnyel. Anche questa volta è finita, su tutto l’emozione che, nonostante la mancanza di calzature e vestiti e riscaldamento, le condizioni di salute di questi bambini siano molto migliorate dalla prima volta, nel 2016, che questa esperienza cominciò.

Oggi ritorniamo a Khebir Daoud.
Tanti gli abitanti di quel campo diffuso su un territorio ampio, e subito cominciamo a lavorare tutti, abituati ormai alle postazioni del giorno prima.
Nel primissimo pomeriggio lasciamo l’Akkar per rientrare a Beirut, dove recuperiamo il resto delle valigie a casa di Lina, salutiamo la nostra mediatrice Chiara e ripartiamo. Direzione: valle della Beekaa, dove saremo ospiti dei Gesuiti di Taanayel. Il viaggio dura circa sei ore, scorrevole fuori città, ma estremamente difficile a Beirut, essendo nell’ora di punta.
Il grande convento dei Gesuiti ci accoglie nella sua magnificenza col volto dell’austero Priore, padre Michel, che abbiamo conosciuto nella missione precedente. Rivedo Mansour, un burbero omone che mi viene incontro e mi saluta con un abbraccio. Dopo cena incontriamo padre Samyr, responsabile della casa e con il quale ho preso contatto da Roma per prenotare il soggiorno. Anche lui parla un italiano scorrevole e la comunicazione e facile e fraterna.
Andiamo presto a dormire, stracotti di fatica della giornata.
Nel complesso, a Khebir Daoud sono state compiute:
58 visite otorino;
53 visite internisti che;
51 visite dermatologiche;
53 visite oculistiche;
26 visite ginecologiche.

La giornata di oggi, su segnalazione di Padre Fadhi, viene dedicata ad un campo siriano di nome Khebir Daoud.
Una struttura in pietra ci accoglie, completamente disadorna e vuota di ogni suppellettile. Finora non mi era mai capitato di entrare in un posto dedicato alle visite completamente vuoto: perfetto per la privacy, ma senza neanche una sedia o tavolo.
Gli amici ginecologi, entrati ormai perfettamente in team ed agevolati dalla lingua, sono i primi a riprendersi dallo shock; scelgono una stanza, sistemano per terra le loro cose, l’ecografo su una loro sedia e il lettino pieghevole portato con fatica dall’Italia viene aperto con attenzione, perché appena riparato. Ma proprio nel corso della prima visita, dalla stanza dei ginecologi giunge un tonfo: il lettino si è rotto, cadendo a terra, e a terra vi rimarrà per il resto della giornata.
Dopo le primissime visite vengo contattata per la segnalazione di un abuso sessuale su minore rilevato dai ginecologi su paziente con frequenti cistiti ricorrenti. Una bambina di sei anni abusata dal padre, come viene confermato anche dalla madre. Siamo tutti profondamente turbati e con padre Fadhi decidiamo di parlarne con il responsabile del campo.
Maria Luisa e Nunzia condividono una stanza, io ne occupo un’altra senza tavolino e Kamal lavora nello di un corridoio, l’unico con presa di corrente per l’ottotipo.
Poco dopo assistiamo ad una scena di violenza incontrollata proveniente dalla sala d’attesa, dove per poco non si arriva alle mani, perché qualcuno era stato accusato di non rispettare la fila. Un degrado terribile e la miseria senza controllo innescano dei meccanismi deleteri, che a fatica siamo riusciti a contenere.
Verso le diciotto interrompiamo e rientriamo al monastero, ove padre Fadhi celebra una S. Messa per noi, alla quale partecipiamo in quattro. Una cappella semplice ed essenziale, dove cinque anime hanno condiviso le emozioni di un giorno difficile, avvolto da immagini di bambini dai volti sporchi e i piedi nudi, di violenza e rassegnazione.
Il vero punto dolente del nostro lavoro, che ad oggi non ha ancora trovato una soluzione concreta ed efficace, riguarda i casi seri che rileviamo; essere in prima linea ed intercettare casi gravi a cui si sa benissimo di non poter dare risposta, fa aumentare la frustrazione ed è un grande esercizio continuare a ritrovare in sé la motivazione per andare avanti.

Tel Abbas è un campo siriano situato a nord del Libano, nella regione dell’Akkar, dove la Comunità Papa Giovanni XXIII è presente da diversi anni con Operazione Colomba, un’esperienza di convivenza di volontari italiani e profughi.
Jad e Abdallah (i giovani ginecologi) sono con noi, ed essendo la loro prestazione l’unica che richieda una particolare privacy, cominciano a visitare in una tenda messa a disposizione dalla proprietaria. Al termine del lavoro hanno fatto circa 20 visite, riscontrando in prevalenza patologie su base infettiva.
Il resto di noi volontari si apposta in un’unica costruzione simile ad un container utilizzato come classe scolastica e ognuno di noi sceglie per sé un angolo per visitare. I banchi fanno da scrittoio, in una situazione di strano adattamento e convivenza forzata tra tutti noi.
Andiamo avanti nelle visite per ore senza fermarci se non per una piccola pausa pranzo. Tra tutti mi colpisce un bambino di undici mesi, affetto da idrocefalia e già operato di shunt almeno sei volte con scarsi risultati. I genitori sembrano distrutti, soverchiati dai debiti contratti per le cure, oltre che dal dolore in sé. Chiedo loro se accetterebbero di portare il bimbo in Italia per la terapia: vengo a sapere che questo caso non è mai stato segnalato per i corridoi umanitari a S. Egidio.
Eppure, mi dico, pochi giorni fa sono arrivate più di 130 persone da Tel Abbas, proprio con un corridoio umanitario.
Padre Fadhi si rivela essere una figura essenziale all’interno del gruppo e si presta a svolgere ogni ruolo, dal traduttore alla mediazione culturale, all’approvvigionamento del cibo. Dopo pranzo Teresa e lui si chiudono in un’altra tenda e portano avanti il corso sulla disostruzione delle vie aeree ad un gruppo di donne e madri.
Lasciamo il campo verso le 16.30 , certi di farvi ritorno lunedì per completare ciò che è rimasto incompiuto (purtroppo però a Tel Abbas non riusciremo a farvi ritorno). Al termine della giornata di lavoro, si contano:
24 visite otorino;
31 visite oculistiche;
17 visite internistiche;
25 visite dermatologiche;
20 visite ginecologiche.

La giornata di ieri è cominciata a Beirut.
Oltre alla possibilità di rimanere senza benzina (le pompe sono tutte chiuse a causa di uno sciopero e non riapriranno prima di domenica), la maggior difficoltà è la sistemazione dei bagagli nel pulmino, che non ha 12 posti come avevamo chiesto e che è a malapena sufficiente per noi volontari.
È grazie al supporto dei Padri Maroniti, soprattutto di padre Fadhi che la sera del primo giorno, dopo tutte le difficoltà, alloggiamo al Monastero dei Carmelitani di Kobayat, un antico edificio in pietra situato in una valle amena al confine nord con la Siria.
Padre Fadhi è un giovane maronita dal volto sorridente e gioviale, conosciuto già in Italia verso i primi di ottobre, quando stavo organizzando tutta la logistica ed i percorsi di questa missione.
Il responsabile del monastero, padre Michele, parla un italiano perfetto e a cena ci scambiamo volentieri due parole per parlare della situazione politica del Paese, delle sue narrazioni, del suo passato e del suo presente.
Oggi siamo diretti a Biblos, nell’ospedale “Nostra Signora del Soccorso” gestito dai Maroniti. L’ospedale appare grande e molto curato, situato su una collina prospiciente il mare, con una vista mozzafiato. La giornata assolata poi si presta ad accentuare i colori e profumi di questa terra che amo così tanto.
Ci presentiamo al direttore generale, padre Wissam Boury, con cui ero in contatto già prima della partenza. Nella sala ci attendono anche il direttore scientifico e il decano della Facoltà di Medicina dell’Università del Sacro Spirito. Si presenta a noi anche un giovane ginecologo, che ha accolto l’invito di unirsi a noi. Si chiama Jad e verrà accompagnato da uno specializzando di nome Abdallah. Dopo aver pranzato con loro alla mensa dell’ospedale, li salutiamo dandogli appuntamento per oggi, in prossimità del campo di Tel Abbas.

Eccoci di nuovo in aereo, per iniziare questa missione tanto attesa.
Saremmo dovuti partire in ottobre, ma lo scoppio delle proteste in Libano a partire dal 17 ottobre ci hanno costretto a rimandare la partenza di circa un mese.
Accade dunque che partiamo oggi, con una squadra diversa e rimaneggiata nella sua composizione. Il gruppo attuale è composto da sei persone e si è formato recuperando tre di noi già in partenza ad ottobre: Kamal (oculista), Teresa (assistente sociale) ed io che scrivo(dermatologa) a cui si sono unite Nunzia (internista), Chiara (mediatrice culturale) e Maria Luisa, la nostra otorinolaringoiatra, incidentata a settembre di frattura alla clavicola ed attualmente ancora col tutore (che gran coraggio ha avuto a scegliere di essere con noi, nelle condizioni in cui si trova!)
All’aeroporto ci attende Ibrahim, il nostro autista di fiducia, con un pulmino da 12 posti che abbiamo affittato per i 10 giorni di questa missione.
Partire in un periodo come questo, pieno di incertezze politiche nel Paese ed in una situazione che può esplodere da un momento all’altro, potrebbe essere stata una scelta poco saggia.
Il Libano è un paese armato, dove tutti possiedono armi e non hanno paura di usarle. Gran parte della popolazione ha ancora memoria della recente guerra civile che ha ridotto in macerie il Paese. La ricostruzione è durata anni e, benché oggi alcuni quartieri di Beirut non hanno nulla da invidiare alle moderne e ricche città occidentali, l’aria che si respira è di pace sospesa, pronta a dissolversi con un pretesto qualsiasi. Sembra sempre di doversi proteggere le spalle da un nemico invisibile e palpabile allo stesso tempo.
Ma sono tanti, troppi i motivi che mi hanno spinto a non rimandare oltre la partenza, tra cui la prosecuzione dell’iter per il riconoscimento sul territorio libanese, passaggio inderogabile per avere maggiori diritti e ampliare il nostro raggio di azione umanitaria, nonché della necessità di distribuire i numerosi farmaci in scadenza da destinare a chi ne può avere ancora bisogno.
In questa missione, con il sostegno dei Padri maroniti di Roma, lavoreremo a nord del Libano, nella regione dell’Akkar.

Oggi torniamo nel campo di Al Rahma, quello che fra tutti ci sembra il luogo più bisognoso e dove abbiamo trovato finora casi molto seri.
Ci mettiamo subito a lavorare secondo il solito schema: Enrico ed io nella piccola medicheria, già attrezzata con lettino e tenda divisoria; Kamal si piazza nella sala comune e prepara il suo angolo operativo.
Quello di Al Rahma è un campo molto disagiato e sporco. Non ricordavo tanta sporcizia nelle visite precedenti. Questa volta il livello di immondizia disseminata da tutte le parti salta proprio all’occhio non appena parcheggiamo. È abbastanza intuitivo come qui le malattie dermatologiche infettive siano statisticamente significanti: verruche, impetigine, candidosi perianali. Mentre tutti noi visitiamo mi piace tentare un esperimento sociale che affido a Teresa. Abbiamo dal convento portato con noi bustoni della spazzatura e coinvolgiamo i bambini nella pulizia del campo. Presto si forma una vera e propria squadra e partecipano circa una quindicina di bimbi, apparentemente motivati…dopo circa una mezz’ora lo sguardo sui ciottoli della sterrata mostrava una diversa uniformità cromatica ai nostri occhi accecati dal sole. L’esperimento ci sembra riuscito perché in tanti hanno partecipato, anche con interesse ed entusiasmo, anche perché avevamo promesso a tutti un gelato di gratificazione! Nonostante la generosa confezione acquistata da Ibrahim, i gelati finiscono ben presto e non siamo in grado di darli a tutti i bambini del campo. Mi sale l’angoscia quando, alzando nuovamente lo sguardo sui ciottoli, vedo che si sono di nuovo riempiti dei colori dell’involucro dei gelati!

Oggi è il giorno dedicato alla formazione.
Ci siamo recati presso la sede di MAPS, dove si sarebbe tenuto l’incontro.
Teresa, la nostra cooperante, ha seguito un corso sulla disostruzione delle vie aeree nei bambini e noi ci siamo procurati un bambolotto e un gilet per la dimostrazione e Marco, il nostro collega rianimatore, ci ha fornito il materiale per la comunicazione in modo assolutamente gratuito: video e poster in tutte le lingue principali, che abbiamo stampato in arabo e inglese e poi distribuito a scopo divulgativo.
Sono stati organizzati due gruppi di persone su due turni (la sala a disposizione era molto piccola) di 30 insegnanti e ho colto sui loro volti un grande interesse per l’argomento e apprezzato i loro ringraziamenti al termine di ogni sessione.

Oggi decidiamo di recarci al campo di El Faour, dove vive la nostra amica Abeer.
Le scuole sono chiuse e non possiamo utilizzare i locali a noi noti ormai da tante esperienze precedenti. Insieme ad Abeer ci viene incontro un giovane che ci apre le porte di un negozio che si affaccia sulla strada, all’apparenza chiuso da molto tempo. Sporcizia e ragnatele ovunque. Decidiamo di non visitare fino a che non venga fatta un po’ di pulizia e ben presto arrivano scopa e scopettone.
Dopo aver riordinato iniziano le visite, che sono tante.
In questo luogo Enrico è quello che soffre di più perché lo spazio angusto non permette di aprire il lettino portatile e finisce che farà ecografie a persone stese su un divano basso con grande sofferenza di schiena.
Ci fermiamo per la pausa pranzo verso le 13.30 e mangiamo un panino con shawarma e falafel. Presto ci accorgiamo che tutti i presenti nella stanza sono affamati come noi e il cibo diventa una bella occasione di condivisone.
In questo posto non si presentano solo ecografie ostetriche. Inoltre, diverse case sono in muratura e, per la prima volta in questa missione, ci capita di visitare anche persone e bambini libanesi.
Terminiamo verso le 16.30, ancora una volta stracotti di stanchezza. Io ho fatto circa 40 visite ma ho imparato che non è il numero assoluto che conta, bensì la modalità con cui vengono fatte e la collaborazione che si ha intorno.
Certamente le mie visite necessitano di una traduzione inglese – arabo e l’amico Ibrahim spesso si assenta per una sigaretta. Purtroppo senza di lui si ferma tutto per me perché nessun altro è in grado di aiutarmi.
Le persone non smettevano più di arrivare anche da campi vicini grazie alla rapidità con cui veniva trasmessa la notizia e quando pensi di essere verso la fine…ecco una nuova ondata fuori che aspetta oltre la vetrata. Tutti abbiamo lavorato molto in questo posto e siamo riusciti a liberarci solo perché abbiamo promesso di ritornare lunedì.

Giornata dedicata ad una collaborazione con la CARITAS libanese.
È la prima volta che tentiamo questa partnership con una struttura diversa da ciò che siamo noi.
Ci attendono con la loro unità mobile ad Hamasny, un campo siriano poverissimo vicino a quello altrettanto misero di El Faour.
Al nostro arrivo, verso le 10, il loro camper è già operativo. Il clima è torrido e il riverbero della luce sui ciottoli è molto fastidioso per gli occhi. Ci viene incontro Norma, l’infermiera che coordina il servizio sanitario sull’unità mobile.
Ci fa accomodare in uno spazio tipo tenda comunitaria, divisa già in 3 ambienti. A lavorare con noi c’è anche un medico otorino, volontario CARITAS. Dopo i saluti e le presentazioni, ci mettiamo subito al lavoro. L’ambiente è buio e il caldo è soffocante.
Presto si delineano alcune realtà importanti:
Questo campo è così povero e le scuole così lontane, che i bambini non vanno a scuola.
Le donne sembrano essere tutte incinte per Enrico si presentano solo ecografie in gravidanza o ginecologiche per accertare la sterilità.
In campo dermatologico, ho riscontrato diversi casi di psoriasi dei talloni, facilitata dal camminare sui ciottoli con piccole ciabatte, cioè senza una vera suola che protegga, e due casi molto seri che a un primo livello non posso assolutamente diagnosticare: il primo è un ragazzino di 14 anni, affetto da genodermatosi di natura da determinare.
Il secondo è un piccolo di circa un anno, accompagnato dalla nonna, con un testone che mi richiama un idrocefalo. Lo segnalo a Norma, che indirizzerà la donna nel centro Caritas di Zahle dove può sottoporsi a raggi x ed effettuare le diagnosi necessarie.
Al termine di questa giornata di lavoro nell’insediamento di Hamasny in collaborazione con la Caritas locale il consuntivo di visite è stato:
26 visite dermatologiche
26 visite oculistiche
21 ecografie
L’équipe Caritas ci saluta verso le 13 mentre noi continuiamo a visitare fino alle 15 in questa struttura buia e veramente poco accogliente. Uscendo, rimaniamo accecati dal sole e dal riverbero.

Sveglia al solito orario, 7.00. Il fatto di dormire nel convento di Deir Taanayel, nella Bekaa, questa volta ci consente di non precipitarci al mattino e di fare la cose in tutta calma.
Di sicuro si sente di meno la stanchezza dei trasferimenti a fine giornata e il silenzio del convento ci aiuta a rilassarci e a mettere insieme le idee sul da farsi. Verso le 9.00 siamo nel campo Al Rahma.
Anche se sono già stata qui altre volte, ciò che mi colpisce sempre è lo stato di degrado ambientale e sporcizia: ovunque lattine, bottiglie di plastica, carta e cartoni di ogni tipo su ciò che costituisce gli spazi comuni e il manto stradale, fatto di ciottoli di scarto edilizio.
Enrico, il nostro radiologo, ha molto successo: avendo con sé uno strumento diagnostico, arrivano tanti uomini e donne, alcuni con patologie serie. Fra tutti, una donna aggetta da cirrosi scompensata con ascite a cui viene consigliato un ricovero sollecito; un giovane tetraparetico per schegge di guerra con un rene in gravi condizioni, già in idronefrosi, per la quale chiederemo il trasferimento terapeutico in Italia; un religioso locale con paresi bellica in evidente stato algico per un trauma da caduta.

Campo siriano di Hamdanieh.
Siamo arrivati prima delle 9 e la prima mezz’ora è trascorsa per stravolgere la disposizione dei mobili nella piccola stanza, onde creare spazio per tre nuclei di lavoro, cercando di preservare la privacy dei pazienti. Verso le 13.30, stracotti dalla pressione del lavoro e dal piccolo ambiente, lasciamo l’insediamento.
Questa prima giornata non è stata assolutamente sufficiente a coprire le richieste, con un consuntivo di:
35 visite dermatologiche
25 oculistiche, con alcuni casi gravissimi di cecità congenita o acquisita
19 ecografie
Kamal, il nostro oculista, ha trovato 3 bambini ipovedenti a cui fare gli occhiali. Abbiamo portato alcune montature da Roma e noi faremo le lenti, in modo tale da consegnarli finiti prima della partenza.
Il problema rimane il secondo livello di intervento, dalla chirurgia o i ricoveri agli esami strumentali successivi, a cui ancora non possiamo dare risposta.
Kamal ha visitato un’anziana di 70 anni, proveniente da Raqqa, affetta da cataratta bilaterale e attualmente cieca, che recupererebbe la vista con un intervento chirurgico. In casi come questo, non essere in grado di dare una risposta fa salire la frustrazione e il senso di impotenza.

È un paese che non ti respinge né ti accoglie, è un paese a cui sei indifferente.
Non farà nulla per facilitarti, nè nulla per allontanarti. È una strategia psicologica di respingimento passivo. Non gli servono muri, non gli servono blocchi, porta le persone a voler andarsene di propria volontà.
Arrivi e sei immerso nello smog che offusca mente ed occhi, non sei di nessun interesse per nessuno, tutti sono troppo impegnati a inferocirsi nel traffico e alienarsi all’interno del proprio nucleo mobile. Ognuno pensa a sé stesso e non ha voglia di comunicare con te. Ogni parola è centellinata con il contagocce, come se facessero uno sforzo sovraumano a parlarti, ad avere un dialogo con te. Non vieni respinto, ma nemmeno accolto.
Ti devi guardare le spalle sempre, e sospettare di tutti, perché non sai se a fregarti sarà il povero o il professionista. Si crea una situazione di ostilità e attrito nascosto che rende tutto difficile, torbido, sospettoso, che ti logora e porta allo sfinimento, finché non sei tu per primo a decidere di fuggire, in qualsiasi modo.
Ma non tutti cedono, anzi, alcuni fanno della resistenza la loro forza vitale, ciò che gli permette di proseguire, di vivere. Mi riferisco a tutti i palestinesi sparsi per il paese che ormai dal 1948 hanno visto mutare la loro situazione provvisoria in un cerchio senza inizio né fine. È il caso di Aziza in Wavel camp. È il caso di Jamila in Chatila camp. È il caso di molte altre donne leader che purtroppo non abbiamo potuto conoscere.
Chatila è un groviglio di fili. Jamila, coordinatrice della scuola di Beit Atfal Assumoud, vive nel campo dal 1958. È nata a Balbeek, nel 1954, ma la sua intera famiglia era già presente in Libano dal 1948 quando i nonni per primi lasciarono Ajouni, il villaggio delle rose vicino ad Haifa, in cerca di un futuro.
In quegli anni il governo libanese divideva i profughi siriani tra i campi del nord e del sud per distribuirli equamente su tutto il territorio, Beirut all’epoca era troppo sovrappopolata, troppo piena di palestinesi, e loro furono inevitabilmente indirizzati a Balbeek. Ma forse fu meglio così. L’aria di Shatila è insalubre, la gente si ammala respirando, vivendo. Le case di mattoni con il tetto in metallo diventano forni d’estate e celle umide d’inverno. Jamila stessa dopo pochi anni si ammalò e il padre, elettricista, fu costretto a scegliere di rinunciare al lavoro per ritornare a Balbeek, per la salute di sua figlia.
Se chiedi a qualsiasi palestinese quale sia la priorità nella sua, nella loro vita, non ti elencherà mai elementi materiali come il cibo o una casa. Ciò che è importante è l’educazione. Con l’istruzione puoi accedere a tutto il resto, è la base, la sorgente della vita: conoscendo i propri diritti si può avere accesso a qualsiasi cosa, e lottare per qualsiasi cosa. Il padre di Jamila sosteneva la stessa causa, e ha trasmesso questo ideale anche alla figlia. “Preferisco non mangiare, ma tu devi andare a scuola”.
Jamila ebbe la possibilità di frequentare una scuola privata libanese, laureandosi in letteratura araba nel 1981. Un nuovo inizio per lei. Ma nel 1981 inizia anche una guerra che ha portato tanta privazione quanto cambiamento, e ridefinizione dei rapporti sociali.
Quando le chiedo se è sposata e ha figli la risposta è sempre associata alla guerra, tutto viene rimandato e legato ad un contesto di privazione.
Nel 1981 Jamila, neolaureata, non stava per diventare moglie di qualcuno, ma leader del campo di Chatila: per dieci anni la vita si fermò, tutti gli uomini lasciarono il Libano privando le ragazze della possibilità di avere un marito, conferendo loro al tempo stesso maggiore autorità e facoltà decisionale sul territorio.
Jamila, cos’è cambiato dal 1982? Tutto. Una totalità alienante di distruzione e miseria, dalle case alle relazioni. “Siamo palestinesi, cosa credi, noi le cose ce le prendiamo lavorando. Non vogliamo la pietà” mi dice. Ma poi riconosce che senza lavoro non è possibile procurarsi nulla. E il lavoro non c’è più da quel giorno.
In passato l’UNRWA provvedeva a coprire ogni spesa medica e a fornire qualsiasi cibo, dalla frutta alla carne, tutto. Nel campo c’era persino una cucina e un’ambulanza che portava direttamente in ospedale chi stava male, e la scuola era libera, gratuita. Quando la guerra iniziò l’aiuto diretto venne sostituito con un trasferimento di soldi, 30 dollari ogni tre mesi per ogni nucleo familiare. Poi improvvisamente iniziarono a selezionare famiglie in situazioni di estrema difficoltà a cui dare questa somma, sostanzialmente per comprare beni di prima necessità, prevalentemente cibo.
Oggi le Nazioni Unite non supportano le famiglie in nulla, non sostengono nemmeno i costi delle medicine per il cancro, e gli unici aiuti provengono da sponsor esterni come le ong o i governi stessi.
Cos’altro è cambiato, Jamila? Contemporaneamente al crollo dei sevizi, alla crescente insostenibilità delle condizioni di vita, la popolazione continua ad aumentare. Nel 1948 a Chatila vi erano 4000 palestinesi, oggi se ne contano circa 23000. Il campo non si è esteso, è solo cresciuto in altezza sorretto dai fili elettrici che fanno da edera alle case. Inutili fili elettrici per un’elettricità che non viene mai fornita regolarmente e quotidianamente. Tre ore di giorno e di notte possono bastare, a volte anche meno.
Oggi, per far fronte alla carenza di luce, molte famiglie decidono di condividere il costo e l’energia di alcuni generatori di corrente che vengono venduti per 100 dollari. Potrebbe anche essere un tampone al problema se non funzionassero a benzina creando ancora più rischi e disagi dell’assenza in sé di luce: i fumi tossici vengono scaricati direttamente sui vicoli, ad altezza umana, ed inalati dalle persone. In questo i bambini sono le prime vittime di malattie croniche come asma e allergie respiratorie.
Non sono mai scoppiati? Si, ogni tanto accade che i generatori si incendino. Ma lo sai, nessuno si prende cura del campo dal 1982. “We try to solve the problem, but it is on the top”.
Un problema a 360 gradi che tocca anzitutto i beni di prima necessità: elettricità, cibo, acqua. Nel campo l’acqua che arriva è salata, ovviamente non potabile. L’acqua per bere si deve comprare. Lavano se stessi e il cibo con acqua salata, per poi lasciarli un po’ in quella dolce, acquistata.
Jamila, ma in tutti questi anni a Chatilla, in Libano, non hai mai pensato di andartene? O di cambiare nazionalità?
Mia cara, se qualcuno prende la tua borsa per strada, ti borseggia, tu urli che quella borsa è tua. E urli forte. E allora perché non si può fare con la propria terra? E soprattutto, a prescindere da qualunque nazionalità io possa acquisire, io sono palestinese, e rimango palestinese. Qualche mese fa una donna in visita al campo mi ha fatto la stessa domanda, io le ho chiesto da dove veniva, e lei mi ha risposto che era giapponese. Ma poi parlando mi diceva che viveva in America da quando era nata e che il Giappone lo aveva visto solo due volte nella vita. E quindi io le ho chiesto, ma non è la stessa cosa? Tesoro…io sono nata qui, mi piace il Libano. Ho contribuito all’economia di questo Paese, ho lavorato per questo Paese, ma non sarò mai libanese. Ogni volta che torno qui mi accorgo che stavo meglio lontana da Beirut.

È il giorno di Rama e di Abeer, questa domenica tra le due settimane di missione.
Due figure storiche, due incontri che mi hanno segnato, in qualche modo responsabili di ciò che stiamo vivendo e della creazione di Second Generation Aid.
Ed è anche il giorno di Osama, l’amico siriano con il quale tutto è cominciato. Unico suo giorno libero dal lavoro…gli ho chiesto di accompagnarci prima da Rama e poi da Abeer perché conosce bene i loro insediamenti.
Abbiamo raggiunto la tenda di Rama in tarda mattinata. Si trova molto vicina al confine con la Siria, dopo Anjar. Sia lei che la sorella sono molto felici di vederci. Ho stabilito con Rama un legame molto speciale, anche se non sono riuscita a tirarla fuori dal suo problema di ulcere alle gambe, di natura sconosciuta e che si porta con sé da 25 anni!
Ad ogni modo, questa volta Rama sta meglio: sta seguendo una cura a base di Trimetoprim e clotrimaziolo (sulfamidico e disinfettante/antimicotico) con una crema locale e le ulcere sembrano regredite in modo significativo.
Siamo fuori dalla tenda. Scattiamo delle foto in memoria del giorno assieme. Rama ci raggiunge poco dopo, e solo allora mi rendo conto di quanto cammino sia stato fatto dal nostro primo incontro in cui avevo davanti una ragazza giovane, magrissima, sofferente, vestita tutta di nero, con bende maleodoranti.
Ora Rama è immersa nei colori e presto, insciallah, guarirà!
* * *
Il pomeriggio è dedicato all’incontro con Abeer, nell’insediamento poverissimo di El Faour.
Le scuole sono chiuse e il nostro unico obiettivo in questo posto è unicamente quello di incontrarla, farla conoscere al gruppo che la intervisterà al fine di fare una relazione e segnalare la sua famiglia per i corridoi umanitari. È vedova e ha tre figli da seguire nella crescita e negli studi (a cui lei tiene moltissimo!)
Se non è nella fragilità lei, a cui, a partire dal prossimo mese, taglieranno anche il finanziamento di $ 108 mensili da parte dell’UNHCR, chi lo sarà mai?

Oggi siamo stato al campo Al Rahma, a Barr Elias.
Ci troviamo vicino al confine con la Siria, lungo la strada diretta a Damasco.
Sono già stata qui più volte a fare visite, e la sensazione, entrandovi, è di conoscere ed essere riconosciuta. Ci sistemiamo in due diversi locali: Maria Luisa ed io su due piccole scrivanie nel locale della medicheria, Kamal in un angolo della sala comunitaria, molto più grande.
Mi ha molto emozionato cominciare a visitare e reincontrare volti noti, rilassati e sorridenti nei miei confronti. Vuol dire, a mio avviso, essere entrata nel loro vissuto ed è testimonianza di un buon lavoro già svolto!
Quante ustioni ricordo di aver medicato nel passato in questo campo e, alzando gli occhi alla vetrina, riconosco il kit di pronto soccorso donato in un’occasione passata.
Le persone si susseguono con rapidità. Osservo che su 16 visite da me effettuate prima della pausa per lo spuntino del pranzo, 4 sono bambini.
Kamal, nell’altra stanza ha visitato circa 30 persone.
I pazienti di Maria Luisa sono stati circa 18.
L’imminente arrivo del maltempo ha anticipato il nostro viaggio di ritorno. Tutti concordiamo con la mia idea di tornare un’altra volta la prossima settimana. Porteremo alcuni dei vestitini che ci siamo portati dall’Italia.

Capitiamo in questo posto senza saperlo.
Una grande sala in un edificio che sarà una moschea, diventa il nostro luogo adibito alle visite. Ai quattro angoli della stanza si collocano i quattro medici: Valeria, che si presta a visite di medicina generale; Kamal, oculista; Lucia per la dermatologia e Maria Luisa, l’otorino. Si contano complessivamente più di 70 pazienti, prevalentemente libanesi di origini turche.

L’obiettivo di Second Generation Aid è quello di aiutare persone in difficoltà, a prescindere dalla nazionalità o dai luoghi.
I pazienti di Jabal Douris erano prevalentemente libanesi. Solo alcuni di loro venivano dal campo vicino. Siamo stati accolti da una giovane donna, madre di tre figli, nella sua casa di montagna, una villetta rustica e tradizionale nelle forme e nell’arredo. Una stanza era interamente dedicata alle visite otorinolaringoiatrie, che sono state 29, un’altra, più luminosa, riservata alla dottoressa Lucia, che ha visitato 36 pazienti. Questo giorno a Jabal Douris ci ha dato l’opportunità di conoscere Khodor, un giovane del posto che lavora nella farmacia a pochi km dalla casa in cui Second Generation Aid stava operando. Grazie a una serie di fortunate coincidenze, Khodor ha saputo della nostra presenza e ci ha raggiunti per chiederci se volevamo una mano. Si è presentato parlando in italiano: Khodor aveva vissuto e studiato per sette anni in Italia. Era incredibile. A 3000 km dall’Italia, in un paesino della valle della Bekaa, un ragazzo libanese ci chiede, con forte accento friulano, se abbiamo bisogno di una mano. E così accompagna le visite di Lucia nelle vesti di mediatore linguistico, rivelandosi un’ottima risorsa per il nostro lavoro.
Al termine delle visite, nel primo pomeriggio, Khodor si offre per accompagnarci al campo siriano di Jabal Douris, una quarantina di tende sparse qua e là che ospitano famiglie siriane provenienti per lo più da Homs. In Libano i profughi siriani vivono in campi informali: non vi è alcun tipo di coordinamento né di controllo e, sebbene la “tenda” sia il filo conduttore comune, si possono trovare situazioni diverse tra loro, da agglomerati di centinaia di tende a stanziamenti solitari.

Martedì mattina ci ha visto in gruppo partire verso la Bekaa verso le 8.30, più tardi del solito dal momento che la mattina è stata dedicata ai saluti nella sede di Maps.
Questo ci ha consentito anche di prendere accordi per il sabato mattina: sarà un tempo dedicato ai rilievi acustici con l’audioimpedenziometro portato da Maria Luisa. Questa volta siamo venute in missione un po’ più attrezzate, grazie alla collaborazione con una società italiana che si occupa di protesica audiologica: AUDIN. Abbiamo presentato il problema e loro ci hanno fornito lo strumento in precedenza concordato per le rilevazioni dei test, il materiale per le impronte, la formazione degli operatori e le protesi che si renderanno necessarie sui bambini analizzati.
E così sabato mattina Maps ci metterà a disposizione una stanza silenziosa ed isolata, ove Maria Luisa potrà praticare i test ai bambini che faremo arrivare.
Nel pomeriggio siamo andati a visitare in un campo a me già noto: Hamdanieh.
Complessivamente ho visitato in totale 26 pazienti. L’età media è di 23 anni e la patologia riscontrata con più frequenza è l’acne (5 casi su 26), seguita dalla dermatite atopica (3 casi su 26).
Il dottor Kamal, oculista, ha visitato in totale 20 pazienti, la cui età media è di 29 anni. Le diagnosi più frequenti sono: congiuntivite (9 casi su 20) e presbiopia (5 casi su 20).
L’età media dei pazienti di Maria Luisa, l’otorino, è di 19 anni, la quale ha visitato in tutto 16 pazienti. 5 pazienti su 16 soffrivano di rinite allergica, in alcuni casi anche purulenta.

Il campo di Wavel si trova a 90 km a est di Beirut, nella valle della Bekaa.
Nasce come accampamento militare per i francesi: una dozzina di edifici in mattone che dopo il 1948 sono diventati il rifugio dei profughi palestinesi. Dal 1952 l’UNRWA è responsabile del campo, fornendo assistenza e aiuti ai palestinesi che ci vivono.
Le condizioni di vita sono chiaramente difficili (a partire dalla struttura delle abitazioni, la maggior parte delle quali è ancora come l’hanno lasciata i francesi), soprattutto nei mesi invernali, quando tutta la valle è interessata da temperature molto rigide. Tutto ciò, associato alla povertà, da luogo a un’innumerevole serie di problemi sociali; palestinesi riescono ad ottenere solo lavori stagionali, nel settore agricolo ed edilizio, e i giovani lasciano presto la scuola per dare supporto economico ai propri genitori.
Entrando nel campo, tra le abitazioni, i bambini che giocano a nascondino e gli uomini che vanno e vengono su e giù per la strada, sorge un edificio tutto rosa: è la scuola.
La scuola di Wavel è gestita dal BAS (Beit Atfal Al Somoud) una ong laica nata nel 1976, per fornire assistenza e supporto ai bambini orfani che hanno perso i propri genitori nel massacro di Tal Al Zaaatar.
Oggi, il BAS offre servizi rivolti alle famiglie di rifugiati e persone in difficoltà, attraverso progetti che rafforzino le capacità e consolidino le possibilità di bambini, giovani, donne e genitori, con lo scopo di contribuire allo sviluppo della comunità palestinese sul territorio libanese.
Second Generation Aid ha incontrato Aziza Shehadeh, coordinatrice del campo, che ci ha accolto all’interno della scuola offrendoci lo spazio per le prestazioni mediche. La stanza è in realtà il suo ufficio, luminoso e grande abbastanza da permettere a Lucia e a Maria Luisa di lavorare assieme senza disturbo reciproco.
Io ho visitato complessivamente 72 persone, di età compresa tra i 4 mesi e i 73 anni. L’età media dei pazienti è di 25 anni.
Acariasi e dermatiti sono stati riscontrati con maggior frequenza (rispettivamente 14 e 11 casi).
L’otorino ha visitato complessivamente 32 persone, di età compresa tra i 4 mesi e i 67 anni. La tonsillite è stata riscontrata con maggior frequenza (5 casi).
Al termine delle visite, abbiamo scambiato due parole con Aziza.
L’esperienza di Wavel è stata bella, a tratti difficile (Aziza ha dovuto urlare diverse volte mentre visitavamo per gestire la calca ed il nervosismo della lunga attesa). Tutto il giorno nel campo a visitare, fino alle 18.45!
Era buio quando finalmente siamo risaliti in macchina. Distrutti, ma felici. A casa, appena rientrati, Maria Luisa si è chiusa in un mutismo quasi autistico che riconosco subito essendo una mia modalità quando sono molto stanca. Poi il re-incontro fra tutti i partecipanti della missione, finalmente, ha stemperato la tensione e ci ha guidato al sonno della notte.

Solita sveglia presto. L’autista ci attende sotto casa alle 8.30 perché è sabato.
Abbiamo calcolato che non lavoreremo oggi, ma dedicheremo il tempo al consuntivo. Giulia, la cooperante, decide di venire con noi e la raccogliamo lungo la via. Oggi è libera dal lavoro e a noi fa piacere la sua presenza sempre allegra e positiva. Ci fermiamo una mezz’ora nella casa di montagna, a Suk El Ghareb, dove devo raccogliere alcuni indumenti lasciati la scorsa estate per il peso eccessivo.
Arriviamo nella sede di MAPS verso le 11. Maria Luisa e Giulia si dirigono subito verso la vicina farmacia a comperare creme per idratazione mancanti. Alla fine abbiamo deciso di integrare creme per la secchezza in tutti i bimbi che ne abbiano manifestato la necessità. E, sebbene le vaseline comperate lo scorso anno siano ancora numerose, non possiamo fare differenza e comperiamo la stessa crema idratante per tutti e le vitamine necessarie.
Il nostro amico Mohammed Salemi però è assente nella sede oggi. Ci fa sapere che è trattenuto a Sidone per un convegno.
Mohammed El Masri è impegnato con l’ospitalità di alcuni inglesi. C’è fermento nella sede. Ci appoggiamo nella stanza della direzione con i nostri pacchi, la descrizione dei casi con i nomi, i termometri e i farmaci per ogni singola scuola. Per quella di Al Rahma, in particolare, un nutrito numero di colori che possono essere utilizzati sia coi pennelli che con le mani.
Siamo proprio felici quando mettiamo lo scotch all’ultimo pacco, e suggelliamo il momento scattando qualche foto per ricordo.

Oggi interrompiamo il nostro avanti-indietro per la Bekaa e ci dedichiamo ai palestinesi residenti nel campo profughi di Chatila, a Beirut.
L’autista viene a prenderci sotto casa verso le 8.00.
Maria Luisa ed io eravamo già state in questo campo, a novembre, ma l’impressione è sempre la stessa: sbarra all’ingresso, strade talmente strette da costringerci all’alternanza, puzza di scarico e inquinamento ambientale ad estremi indicibili. Sopra a tutto ciò, un senso di oppressione legato al sovraffollamento e al non poter godere del sole se non a piccoli spicchi nel cielo. Le case sono alte, le strade minuscole, non c’è ricambio d’aria e le condizioni di luce naturale scarsissima obbligano all’uso continuo di luci al neon.
Jamila, la direttrice scolastica, ci viene incontro e ci guida nei vicoli fino alla scuola. Cominciamo a lavorare verso le 9.15. Presto mi rendo conto che il lavoro per me è scarso tra questi bimbi palestinesi, mentre il lavoro per Maria Luisa abbonda e di casi anche seri.
A noi si aggiunge ben presto Giulia, la cooperante italiana di “Un ponte per…”, in compagnia del suo ragazzo Anthony. La sua presenza, come altre volte, si rivela molto utile per Maria Luisa, essendo la sua figura a metà strada tra la traduttrice e la mediatrice culturale. Il lavoro scorre veloce anche se le visite sono molte e qualche volta anche un po’ lunghe per il settore otorino, data la necessità che alcuni hanno di seguire una terapia chirurgica di tonsille e/o adenoidi.
Complessivamente, in dermatologia sono stati visitati 25 bambini, la maggioranza dei quali (17) non presentavano patologie evidenti. Solo 8 mostravano qualcosa da prendere in cura. Questo si presta ad alcune considerazioni circa lo stile di vita dei palestinesi: benché privati della libertà, in uno stato di sovraffollamento come se fossero in carcere, hanno però accesso all’acqua, vivono in case edificate e sono informati sui concetti generali dell’igiene personale. Ben poco possono invece sull’igiene ambientale, che è assai compromessa e che giustifica l’altissima incidenza di allergie e patologie delle prime vie aeree, come dimostrato dall’altissimo numero di visite di Maria Luisa.
Nei saluti, come la volta scorsa, queste donne palestinesi si presentano con un regalino per noi. Questa volta è un manufatto dei bimbi realizzato per la festa della mamma: un vaso di coccio con un fiore di carta crespa avvolto nel cellophane. Anche questo, avere spazio nella propria vita per la gratitudine, mi dà conferma delle loro migliori condizioni di vita rispetto ai siriani.

Il fatto che anche Lina oggi viene con noi non ci risparmia la partenza di primo mattino.
Appuntamento con Wissam alle 7, direzione Beeka.
Arriviamo direttamente nel campo di El Faour perché Lina ormai è una maestra e può insegnare agilmente la strada. Il nostro arrivo è stato annunciato ed i saluti affettuosi che le vengono rivolti sono molti e colmi di nostalgia. Comprendo da questo cerimoniale quanto la sua figura sia mancata negli ultimi mesi. Lei ha rappresentato il raccordo tra Beirut, le farmacie e le medicine e la Bekaa. Nel 2017 per motivi personali la sua motivazione è venuta meno, e ciò l’ha allontanata dall’empatia con queste persone. È assolutamente comprensibile: quando si hanno più fronti da affrontare, si abbandona quello più gravoso per non essere stritolati.
Oggi lei è nuovamente qui con noi, con la sua energia travolgente e contagiosa, ma è attaccata allo smartphone, distratta continuamente e i suoi pensieri sono altrove. Confesso che questo suo essere presente/assente finisce presto per infastidirmi perché lungi dall’essere d’aiuto spesso crea disordine.
C’è una gran confusione all’interno del piccolo container, tanto che ad un certo punto Maria Luisa sbotta, perché non si capisce più nulla. I suoi casi sono numerosi e qualche volta complicati; viene richiesta concentrazione soprattutto nella scelta della dose giusta di antibiotico. Il periodo in cui stiamo visitando (tardo inverno/primavera) ci mostra tutte le patologie derivanti dal freddo a cui sono sottoposti questi bimbi negli insediamenti su tende e nel suo caso le tonsilliti croniche sono numerosissime.
Il grido di Maria Luisa, assolutamente inatteso, dopo un iniziale shock che ripristina l’attenzione, ben presto viene dimenticato e il casino generale si rimpadronisce dell’ambiente.
Intorno a me si avvicendano maestri vari che parlano un po’ di inglese che comunque mi consentono di lavorare e ai quali va la mia gratitudine.
Verso le 12,30 finiamo il turno di mattina e le nostre visite nella scuola di El Faour, insediamento più povero fra i poveri.
Io conto solo 15 visite. È un miracolo, mi dico! Qui in passato i pidocchi non si contavano e la scabbia la faceva da padrona.
Puntuale per le 12.30 come le era stato chiesto, si presenta Abir, una giovane bellissima donna siriana, vedova e madre di tre figli. Abbiamo necessità di intervistare qualcuno per il piccolo video che vogliamo produrre al rientro e lei mi sembra la persona più adatta. Maria Luisa si attiva col cellulare e Lina pone le domande in arabo e appunta le risposte in inglese su un foglio. Non ho purtroppo il tempo di rivedere questa intervista ma certamente mi dedicherò al rientro a coglierne l’essenza.
Dopo uno spuntino al volo, eccoci: verso le 14.30 raggiungiamo l’istituto per orfani al confine con la Siria di Dar El Hanan. È un grande collegio in muratura, finalmente, dove si respira aria di pulito e dove anche Maria Luisa sembra finalmente rilassarsi. Siamo qui principalmente per portare farmaci ad un giovane con molluschi contagiosi del pene. Ho visto delle foto inviatemi su whatsapp e ritengo un dovere cercare di risolvere il suo problema. Quando lo vedo mi rendo conto che questo dodicenne presenta anche un altro scoglio, di ben più difficile soluzione: una elefantiasi del prepuzio in sede di circoncisione. Non ho mai visto in tanti anni di professione una patologia simile. Sicuramente non posso essere io a risolvere questo problema che è di competenza chirurgica. Ciò che posso fare è chiedere aiuto e lo farò con certezza.
Circa 9 visite per me e una quindicina per Maria Luisa in questo posto pulito, non polveroso che quasi ci dispiace dover lasciare. Ci viene facile osservare quanto sia meno oneroso visitare in buone condizioni di igiene ambientale e non nelle situazioni estreme dei campi che spesso ci hanno messo a dura prova di pazienza. Con questa esperienza dagli orfani si conclude per questa volta la parte operativa che ci siamo prefissati.

Cominciato la giornata nella sede di Maps, dove incontriamo Mohammed Salemeh, che ormai è diventato un amico.
È un siriano di circa cinquant’anni, magro, non alto, con profonde rughe sul volto che raccontano della sua vita. Anche se mi piacerebbe molto, non abbiamo mai avuto il tempo, fino ad ora, per fare due chiacchiere. È una persona molto interessante, con un gran cuore e ciò che osservo è che tra noi è molto forte la comunicazione non verbale, quella del cuore, e sebbene parli un ottimo inglese, spesso ci capiamo senza parlare.
La scuola del mattino è situata nel campo di Al Rahma. Ad accoglierci, oltre a Mohammed, il direttore Anwar, persona molto gradevole e con un sorriso accattivante.
La prima cosa che osservo in questo posto sono i colori. Ad esempio, la facciata del container adibito a ufficio della direzione è dipinto di color rosa shocking. Intorno, sui muri esterni, sono stati appesi dei poster dipinti dai bambini e per terra un finto prato verde che cerca di nascondere parte del brecciolino.
Mi fa tanto piacere quando vengo ringraziata per i colori che avevo donato l’anno scorso. Evidentemente sono stati utilizzati per rendere l’ambiente più gradevole e questo mi ha reso molto felice. Come pure quando il direttore ha tirato fuori da un ripostiglio il kit di pronto soccorso, anche questo dono di una delle missioni dello scorso anno, mostrandomi come tutti i prodotti fossero terminati. Mi ha dato così occasione di rifornirlo nuovamente, sapere cosa ha gradito di più o è stato più utile nel corso dell’anno, ma soprattutto di rendermi conto che nel kit mancava un termometro! Provvederemo nel corso di questa missione a rifornire ogni scuola di uno strumento per la rilevazione della febbre.
Il tempo scorre veloce in questa stanza, visitiamo in grande armonia e questa è la conferma di quanto sia importante l’energia delle persone che si hanno intorno. Abbiamo respirato sorrisi e positività in questa scuola. Durante la ricreazione addirittura si mette la musica da un altoparlante per invitare i bambini a scatenarsi nella danza. Sono riuscita a riprendere la scena in un paio di video che mi piacerebbe mostrare una volta rientrata.
Nella pausa pranzo riusciamo a fermarci in un piccolo ristorante per un’insalata e un bagno pulito. Solo allora ci rendiamo conto che Mohammed non sta bene: ha il viso scuro di chi è sofferente di qualcosa e ci dice di avere problemi intestinali dal giorno prima. Abbiamo con noi una bustina di Polase: gliela consigliamo assieme ad una reidratazione. Giusto il tempo di uno spuntino e due chiacchiere ed eccoci subito catapultate nella scuola di Saadnayel per le visite del pomeriggio. Questa località è quella dove in passato, e non so ancora il perché, mi è capitato di osservare e curare diversi casi di ustioni. Rivedo Maher, un bambino che ora ha tre anni, sulla cui gamba appena ustionata un anno fa mi è capitato il triste compito di pulizia e medicazione. Ora non piange più, sebbene il ricordo del trauma sia ancora vivo in lui. Osservo un lungo cheloide neoformato ma nel complesso non c’è ritrazione e la situazione obiettiva è migliore di quello che ci si poteva aspettare. Ho con me dei cerotti di silicone portati dall’Italia e comunico alla mamma che sabato torneremo e gliene spiegherò l’uso.
Al termine delle visite di dermatologia si contano solo 18 bambini, nulla rispetto a prima. Le prime volte che sono venuta in questi luoghi, i numeri erano tre o quattro volte superiori. Le patologie erano differenti e per lo più infettive. L’anno scorso, ad esempio, l’impetigine è stata rappresentata nelle sue forme più varie, talora anche gravi, dal momento che nessuno l’aveva diagnosticata e curata in tempo.
È dunque soprattutto in questa scuola, nel pomeriggio di martedì, che comincio a fare le mie considerazioni circa l’utilità del lavoro svolto fin qui. Non c’è paragone rispetto alle prime volte. Questo vuol dire che l’attenzione, le cure idonee somministrate e, soprattutto, la formazione degli insegnanti unita all’applicazione di norme di igiene ambientale hanno dato i frutti sperati. Sono molto felice perché tutto ciò conferma la nostra intuizione e ci dà la forza di portare avanti l’idea e pensare di esportarla anche in altri luoghi estremi del mondo. Ne parlo anche con Maria Luisa, che è la prima collega ad avermi dato fiducia e ad essersi messa davvero in gioco.
La nostra associazione, nata quasi priva di linee guida e di grandi obiettivi, si potrebbe proprio collocare nelle svariate “prime linee” del mondo, nel tentativo di portare salute laddove la miseria paralizza anche il diritto alla vita. Si potrebbero dunque aprire altri fronti di intervento, penso ad esempio all’Etiopia, dove mi è già capitato di andare in missione per due volte, o in centro/sud-America.
Per ora siamo piccolissimi e questo potrebbe essere un sogno, ma ho imparato che bisogna saper sognare in primo luogo per sviluppare l’idea che porterà ad una realizzazione futura…
Nel campo di Saadnayel visitiamo fino alle 17.30. All’imbrunire lasciamo questo insediamento di container che funge da scuola. Il tempo di qualche foto con il tramonto e la gioia nel cuore. Rientro a Beirut per le 19.30, cotti di fatica.

Riprendo a scrivere stamattina.
È martedì e sebbene abbiamo appuntamento alle 8.00 ci siamo svegliati alla solita ora (6.00). Ne approfitto subito per scrivere un po’, dal momento che la vita scorre veloce e carica di impegni e in macchina questa volta non riesco a scrivere perché le strade sono dissestate e piene di buche.
Siamo andate sole alla Bekaa, forti dell’appoggio dei dirigenti locali di MAPS. Appena arrivate nella sede siamo andate nella vicina farmacia a comperare i farmaci che ci mancavano (soprattutto antibiotici orali) e poi siamo giunte nel campo di Al Awda verso le 10.30. Situazione simile a quella del giorno precedente: ci siamo accomodate nel container che funge da ufficio direttivo e sistemate ai lati della scrivania. La cosa penosa è stata la comunicazione. Ad aiutarci c’era solo un insegnante, Osama, impegnato a tradurre su due fronti.
Presto ci siamo sentite travolte da aspettative a cui non poter dare risposta e tutto questo ci ha reso ogni singola visita tre volte più gravosa del solito. Non so se riesco a dare un’idea del gran disordine che ben presto si è creato all’interno del piccolo ambiente che ci ospitava. Tutto è stato veramente molto difficile. Al termine della giornata abbiamo visitato circa la metà dei bambini di ieri (25 io, 15 Maria Luisa) con il doppio della fatica. Abbiamo giusto fatto uno spuntino col tè e alle 16.00, sulla strada del ritorno, ci siamo fermati per uno snack e un caffè.

Partenza alle 7.00 da Beirut.
Facciamo la conoscenza dell’autista, Wissam, a cui tanto è affidato della riuscita di questi giorni, e ci accompagna il nostro amico Jacopo, cooperante di “Un ponte per…”, la cui presenza ci rassicura molto.
Questo giorno è dedicato alle scuole di Maps e la destinazione è El Marj, frequentata da quasi 500 piccoli, su due turni.
Ci sistemiamo nel container che ospita la sala dei professori. Maria Luisa ed io lavoriamo ai lati opposti della stessa scrivania, in un ambiente molto piccolo e affollato. Jacopo siede accanto a Maria Luisa e la segue con le traduzioni ed il lavoro di segreteria. Così, lavoriamo in modo serio e continuativo dalle 10.30 alle 16.30, con solo una pausa di mezz’ora per un panino veloce. Al termine si contano 45 visite dermatologiche e 35 dell’otorino. Nel mio caso si può parlare di una invasione di verruche in questa scuola, di tutti i tipi e qualità e con una incidenza altissima. Osservo il carattere epidemico che le malattie assumono in questo luogo, dove la condizione di scarsa igiene è legata alla penuria d’acqua.
Rientriamo a Beirut verso le 19.00, cotti dalla fatica e dal traffico stradale (essendo domenica, il rientro del fine settimana lo prendiamo tutto.) Finisce che andiamo subito a dormire, dopo una cena frugale fatta a casa.

Solito volo Alitalia delle 11.35, al quale siamo oramai abituati.
Arrivo previsto alle ore 15.30 ora locale. Lina verrà a prenderci in aeroporto, come al solito (questa volta con autista e macchina di sua mamma, dal momento che la propria vettura è incidentata ed inagibile.)
Le premesse di questa missione sono state molto difficili, tanto da temere, proprio l’altro ieri, di dover mollare e non partire più.
Ora però siamo finalmente in volo. È tutto finito, voglio sperare, il negativo dei giorni scorsi.
E tutto ricomincia dalla nostra missione. È con me Maria Luisa Carucci, amica e collega otorino che si avventura oramai per la terza volta nell’esperienza dei campi profughi. Dall’ultima riunione ricopre anche il ruolo di vicepresidente della onlus e questa sua presenza nella dirigenza mi dà molta tranquillità. Sicuramente condivide la vocazione missionaria (perché di questo si tratta in realtà) e sicuramente ha già esperienza dei luoghi e delle persone, per cui mi sento sostenuta nelle inevitabili decisioni da prendere che verranno.

Questo giorno è dedicato al campo palestinese di Nahr El Bared, a nord di Tripoli.
Appuntamento con il direttore del campo al mattino presto. Lui ci scorta all’ingresso del campo, fortemente controllato dalla sicurezza libanese. La nostra macchina viene esaminata con attenzione dopo i nostri lasciapassare e per qualche attimo temiamo il peggio per le medicine che abbiamo nel cofano. Sarà il responsabile del campo a garantire ancora per noi e veniamo fatti passare. Al termine della lunga giornata di lavoro in una grande aula della scuola, chiedo quando sia arrivata fin là l’ultima volta una delegazione di medici stranieri. Mi guardano con stupore gli interlocutori e non capiscono la domanda. Comprendo non senza emozione di essere i primi in assoluto ad aver prestato la nostra opera in questo modo, venendo da così lontano…

Oggi siamo nel campo palestinese di Beddawi, in prossimità di Tripoli.
Visitiamo in due stanze separate ma attigue e pulite, che si affacciano su un giardino prospiciente alla scuola. Per noi è il giorno dell’incontro con Tala, la bambina di 8 anni affetta da epidermolisi bollosa. Non sarà possibile dimenticare l’emozione dell’incontro con questa bimba che ha avuto in sorte una malattia genetica rara e complessa. Le prometto che farò il possibile per aiutarla. Abbiamo visitato circa 40 pazienti con problematiche otorino e delle vie respiratorie per l’inquinamento atmosferico legato ai gravi problemi dello smaltimento dei rifiuti. Anche i pazienti dermatologici sono stati numerosi (circa 50) con patologie prevalentemente di tipo infettivo-virale.

Questo giorno è dedicato alla Bekaa. Operiamo nelle scuole dei campi siriani, prima di Saadnayel e poi Barrelies.
Conosciamo già i bambini di questi insediamenti, i loro volti e quelli degli insegnanti ci sono familiari, ma è la prima volta che ci troviamo qui in qualità di onlus e subito mi appare l’utilità di questo passaggio. Se non fossimo stati una onlus, sicuramente non avremmo potuto contare sull’aiuto di Giulia e Jacopo che oggi sono con noi in veste di mediatori culturali.
Osservo che il numero delle patologie e la loro gravità si è molto ridotto dalla prima volta che ho visitato questi bambini. Anche i maestri sono più consapevoli dopo quel giorno di formazione in cui ho cercato di mostrare loro le patologie dermatologiche infettive di maggior interesse.
Nel pomeriggio a Barrelies, dove si trova il campo di Al Rahma, non ci accomodiamo in un container ma ci sediamo attorno ad una scrivania collocata in un finto giardino esterno. L’aria che odora fortemente di fogna (perché il vento spira verso di noi) inizialmente non ci consente una gran concentrazione. Sta ricominciando il prurito in questo posto, ma osservo con piacere che il direttore della scuola e alcuni maestri sono in grado di riconoscere ormai le papule fin dalla fase iniziale, sono in grado di utilizzare le terapie che abbiamo smistato lo scorso anno e non devo più faticare per convincerli. Un gran risultato mi sembra, connesso alla formazione!

Burj El Barajneh è un campo palestinese che si trova nella periferia di Beirut.
All’arrivo, un nodo alla gola ci assale: non possiamo non notare la sbarra che delimita il campo e la stessa sensazione di ieri che si ripete, con le strade che si fanno sempre più strette, rendendo la circolazione difficile. Nel campo non arriva il sole, lo spazio angusto è pervaso da fili elettrici penzolanti e da un’aria irrespirabile. La stessa claustrofobia di ieri mi assale per un po’.
Ancora tanti bambini. È da loro che cominciamo. C’è tanto lavoro sia per me che per Maria Luisa. Osserviamo la prevalenza di patologie otorino rispetto a quelle dermatologiche e ci sembra evidente il rapporto delle infiammazioni delle vie respiratorie con la situazione ambientale.
Tra tutti i miei casi (circa quindici) mi colpisce un adolescente di 14 anni con postumi di ustione su tutto il tronco. Ricoverata per un lungo periodo in ospedale, oggi presenta inestetici risultati delle terapie praticate. Siriana, già orfana di entrambi i genitori, ospite con la zia in un campo palestinese di Beirut, ha dovuto affrontare anche una grave ustione.
Prima di uscire ci viene fatto il dono di una collanina di perline e braccialetti, manufatti artigianalmente, con la bandiera palestinese, che indossiamo subito.

Oggi siamo a Chatila, campo palestinese alla periferia sud di Beirut. È per tutti noi la prima volta con i palestinesi.
La scuola è situata al termine di un vicolo strettissimo, il cui cielo è coperto da una costellazione di fili elettrici fluttuanti e il cui selciato è una fanghiglia che assomiglia ad un pantano. Al termine di questo viottolo entriamo in una scuola, annunciata da qualche murales colorato che tenta di dare energia e luce a questo posto buio. Subito mi colpisce che non c’è nessuna possibilità di luce naturale all’interno della struttura. Finestre piccolissime che si affacciano su vicoli con edifici altissimi, ove non filtra neanche l’aria… se non fosse per l’elettrificazione qui non si potrebbe vivere!
Dopo circa due ore di visite, ci informano della presenza di collaboratori italiani in questo momento operanti nei campi, cooperanti di “Un ponte per…” in missione di pace: Giulia e Jacopo, che saranno nei giorni a seguire i nostri primi mediatori culturali, figura fondamentale per il nostro lavoro.
Maria Luisa visita circa 25 bambini ed io circa una decina. Al termine Maria Luisa pratica un esame audiometrico su un bimbo, Arafat, che le maestre ci avevano segnalato come poco attento. Sicuramente ipoudente. Dovrà fare ulteriori accertamenti e forse correggere con protesi il prima possibile.
Mentre carichiamo nuovamente i pacchi nel bagagliaio penso: fosse anche solo per questa visita audiometrica, la nostra presenza qui, oggi, in questa scuola del vicolo buio, è stata più che giustificata.