Terza missione Libano – Ottobre 2018

Marj Camp Second Generation Aid Onlus

9 Ottobre


Wavel Camp

Il campo di Wavel si trova a 90 km a est di Beirut, nella valle della Bekaa. Nasce come accampamento militare per i francesi: una dozzina di edifici in mattone che dopo il 1948 sono diventati il rifugio dei profughi palestinesi. Dal 1952 l’UNRWA è responsabile del campo, fornendo assistenza e aiuti ai palestinesi che ci vivono. Le condizioni di vita sono chiaramente difficili (a partire dalla struttura delle abitazioni, la maggior parte delle quali è ancora come l’hanno lasciata i francesi), soprattutto nei mesi invernali, quando tutta la valle è interessata da temperature molto rigide. Tutto ciò, associato alla povertà, da luogo a un’innumerevole serie di problemi sociali; palestinesi riescono ad ottenere solo lavori stagionali, nel settore agricolo ed edilizio, e i giovani lasciano presto la scuola per dare supporto economico ai propri genitori. Entrando nel campo, tra le abitazioni, i bambini che giocano a nascondino e gli uomini che vanno e vengono su e giù per la strada, sorge un edificio tutto rosa: è la scuola. La scuola di Wavel è gestita dal BAS (Beit Atfal Al Somoud) una ong laica nata nel 1976, per fornire assistenza e supporto ai bambini orfani che hanno perso i propri genitori nel massacro di Tal Al Zaaatar. Oggi, il BAS offre servizi rivolti alle famiglie di rifugiati e persone in difficoltà, attraverso progetti che rafforzino le capacità e consolidino le possibilità di bambini, giovani, donne e genitori, con lo scopo di contribuire allo sviluppo della comunità palestinese sul territorio libanese. Second Generation Aid ha incontrato Aziza Shehadeh, coordinatrice del campo, che ci ha accolto all’interno della scuola offrendoci lo spazio per le prestazioni mediche. La stanza è in realtà il suo ufficio, luminoso e grande abbastanza da permettere a Lucia e a Maria Luisa di lavorare assieme senza disturbo reciproco. Io ho visitato complessivamente 72 persone, di età compresa tra i 4 mesi e i 73 anni. L’età media dei pazienti è di 25 anni. Acariasi e dermatiti sono stati riscontrati con maggior frequenza (rispettivamente 14 e 11 casi). L’otorino ha visitato complessivamente 32 persone, di età compresa tra i 4 mesi e i 67 anni. La tonsillite è stata riscontrata con maggior frequenza (5 casi). Al termine delle visite, abbiamo scambiato due parole con Aziza. L’esperienza di Wavel è stata bella, a tratti difficile (Aziza ha dovuto urlare diverse volte mentre visitavamo per gestire la calca ed il nervosismo della lunga attesa). Tutto il giorno nel campo a visitare, fino alle 18.45! Era buio quando finalmente siamo risaliti in macchina. Distrutti, ma felici. A casa, appena rientrati, Maria Luisa si è chiusa in un mutismo quasi autistico che riconosco subito essendo una mia modalità quando sono molto stanca. Poi il re-incontro fra tutti i partecipanti della missione, finalmente, ha stemperato la tensione e ci ha guidato al sonno della notte.


   

10 Ottobre


Marj Camp

Martedì mattina ci ha visto in gruppo partire verso la Bekaa verso le 8.30, più tardi del solito dal momento che la mattina è stata dedicata ai saluti nella sede di Maps. Questo ci ha consentito anche di prendere accordi per il sabato mattina: sarà un tempo dedicato ai rilievi acustici con l’audioimpedenziometro portato da Maria Luisa. Questa volta siamo venute in missione un po’ più attrezzate, grazie alla collaborazione con una società italiana che si occupa di protesica audiologica: AUDIN. Abbiamo presentato il problema e loro ci hanno fornito lo strumento in precedenza concordato per le rilevazioni dei test, il materiale per le impronte, la formazione degli operatori e le protesi che si renderanno necessarie sui bambini analizzati. E così sabato mattina Maps ci metterà a disposizione una stanza silenziosa ed isolata, ove Maria Luisa potrà praticare i test ai bambini che faremo arrivare. Nel pomeriggio siamo andati a visitare in un campo a me già noto: Hamdanieh. Complessivamente ho visitato in totale 26 pazienti. L’età media è di 23 anni e la patologia riscontrata con più frequenza è l’acne (5 casi su 26), seguita dalla dermatite atopica (3 casi su 26). Il dottor Kamal, oculista, ha visitato in totale 20 pazienti, la cui età media è di 29 anni. Le diagnosi più frequenti sono: congiuntivite (9 casi su 20) e presbiopia (5 casi su 20). L’età media dei pazienti di Maria Luisa, l’otorino, è di 19 anni, la quale ha visitato in tutto 16 pazienti. 5 pazienti su 16 soffrivano di rinite allergica, in alcuni casi anche purulenta.

11 Ottobre


Jabal Douris

L’obiettivo di Second Generation Aid è quello di aiutare persone in difficoltà, a prescindere dalla nazionalità o dai luoghi. I pazienti di Jabal Douris erano prevalentemente libanesi. Solo alcuni di loro venivano dal campo vicino. Siamo stati accolti da una giovane donna, madre di tre figli, nella sua casa di montagna, una villetta rustica e tradizionale nelle forme e nell’arredo. Una stanza era interamente dedicata alle visite otorinolaringoiatrie, che sono state 29, un’altra, più luminosa, riservata alla dottoressa Lucia, che ha visitato 36 pazienti. Questo giorno a Jabal Douris ci ha dato l’opportunità di conoscere Khodor, un giovane del posto che lavora nella farmacia a pochi km dalla casa in cui Second Generation Aid stava operando. Grazie a una serie di fortunate coincidenze, Khodor ha saputo della nostra presenza e ci ha raggiunti per chiederci se volevamo una mano. Si è presentato parlando in italiano: Khodor aveva vissuto e studiato per sette anni in Italia. Era incredibile. A  3000 km dall’Italia, in un paesino della valle della Bekaa, un ragazzo libanese ci chiede, con forte accento friulano,  se abbiamo bisogno di una mano. E così accompagna le visite di Lucia nelle vesti di mediatore linguistico, rivelandosi un’ottima risorsa per il nostro lavoro. Al termine delle visite, nel primo pomeriggio, Khodor si offre per accompagnarci al campo siriano di Jabal Douris, una quarantina di tende sparse qua e là che ospitano famiglie siriane provenienti per lo più da Homs. In Libano i profughi siriani vivono in campi informali: non vi è alcun tipo di coordinamento né di controllo e, sebbene la “tenda” sia il filo conduttore comune, si possono trovare situazioni diverse tra loro, da agglomerati di centinaia di tende a stanziamenti solitari.

12 Ottobre


Sahal Douris

Capitiamo in questo posto senza saperlo. Una grande sala in un edificio che sarà una moschea, diventa il nostro luogo adibito alle visite. Ai quattro angoli della stanza si collocano i quattro medici: Valeria, che si presta a visite di medicina generale; Kamal, oculista; Lucia per la dermatologia e Maria Luisa, l’otorino. Si contano complessivamente più di 70 pazienti, prevalentemente libanesi di origini turche.

13 Ottobre


Al Rahma

Oggi siamo stato al campo Al Rahma, a Barr Elias. Ci troviamo vicino al confine con la Siria, lungo la strada diretta a Damasco. Sono già stata qui più volte a fare visite, e la sensazione, entrandovi, è di conoscere ed essere riconosciuta. Ci sistemiamo in due diversi locali: Maria Luisa ed io su due piccole scrivanie nel locale della medicheria, Kamal in un angolo della sala comunitaria, molto più grande. Mi ha molto emozionato cominciare a visitare e reincontrare volti noti, rilassati e sorridenti nei miei confronti. Vuol dire, a mio avviso, essere entrata nel loro vissuto ed è testimonianza di un buon lavoro già svolto! Quante ustioni ricordo di aver medicato nel passato in questo campo e, alzando gli occhi alla vetrina, riconosco il kit di pronto soccorso donato in un’occasione passata. Le persone si susseguono con rapidità. Osservo che su 16 visite da me effettuate prima della pausa per lo spuntino del pranzo, 4 sono bambini. Kamal, nell’altra stanza ha visitato circa 30 persone. I pazienti di Maria Luisa sono stati circa 18. L’imminente arrivo del maltempo ha anticipato il nostro viaggio di ritorno. Tutti concordiamo con la mia idea di tornare un’altra volta la prossima settimana. Porteremo alcuni dei vestitini  che ci siamo portati dall’Italia.

14 Ottobre


Rama e Abeer

È il giorno di Rama e di Abeer, questa domenica tra le due settimane di missione. Due figure storiche, due incontri che mi hanno segnato, in qualche modo responsabili di ciò che stiamo vivendo e della creazione di Second Generation Aid. Ed è anche il giorno di Osama, l’amico siriano con il quale tutto è cominciato. Unico suo giorno libero dal lavoro…gli ho chiesto di accompagnarci prima da Rama e poi da Abeer perché conosce bene i loro insediamenti. Abbiamo raggiunto la tenda di Rama in tarda mattinata. Si trova molto vicina al confine con la Siria, dopo Anjar. Sia lei che la sorella sono molto felici di vederci. Ho stabilito con Rama un legame molto speciale, anche se non sono riuscita a tirarla fuori dal suo problema di ulcere alle gambe, di natura sconosciuta e che si porta con sé da 25 anni! Ad ogni modo, questa volta Rama sta meglio: sta seguendo una cura a base di Trimetoprim e clotrimaziolo (sulfamidico e disinfettante/antimicotico) con una crema locale e le ulcere sembrano regredite in modo significativo. Siamo fuori dalla tenda.  Scattiamo delle foto in memoria del giorno assieme. Rama ci raggiunge poco dopo, e solo allora mi rendo conto di quanto cammino sia stato fatto dal nostro primo incontro in cui avevo davanti una ragazza giovane, magrissima, sofferente, vestita tutta di nero, con bende maleodoranti. Ora Rama è immersa nei colori e presto, insciallah, guarirà!

* * *

Il pomeriggio è dedicato all’incontro con Abeer, nell’insediamento poverissimo di El Faour. Le scuole sono chiuse e il nostro unico obiettivo in questo posto è unicamente quello di incontrarla, farla conoscere al gruppo che la intervisterà al fine di fare una relazione e segnalare la sua famiglia per i corridoi umanitari. È vedova e ha tre figli da seguire nella crescita e negli studi (a cui lei tiene moltissimo!) Se non è nella fragilità lei, a cui, a partire dal prossimo mese, taglieranno anche il finanziamento di $ 108 mensili da parte dell’UNHCR, chi lo sarà mai?

15 Ottobre


Chatila

È un paese che non ti respinge né ti accoglie, è un paese a cui sei indifferente. Non farà nulla per facilitarti, nè nulla per allontanarti. È una strategia psicologica di respingimento passivo. Non gli servono muri, non gli servono blocchi, porta le persone a voler andarsene di propria volontà. Arrivi e sei immerso nello smog che offusca mente ed occhi, non sei di nessun interesse per nessuno, tutti sono troppo impegnati a inferocirsi nel traffico e alienarsi all’interno del proprio nucleo mobile. Ognuno pensa a sé stesso e non ha voglia di comunicare con te. Ogni parola è centellinata con il contagocce, come se facessero uno sforzo sovraumano a parlarti, ad avere un dialogo con te. Non vieni respinto, ma nemmeno accolto. Ti devi guardare le spalle sempre, e sospettare di tutti, perché non sai se a fregarti sarà il povero o il professionista. Si crea una situazione di ostilità e attrito nascosto che rende tutto difficile, torbido, sospettoso, che ti logora e porta allo sfinimento, finché non sei tu per primo a decidere di fuggire, in qualsiasi modo. Ma non tutti cedono, anzi, alcuni fanno della resistenza la loro forza vitale, ciò che gli permette di proseguire, di vivere. Mi riferisco a tutti i palestinesi sparsi per il paese che ormai dal 1948 hanno visto mutare la loro situazione provvisoria in un cerchio senza inizio né fine. È il caso di Aziza in Wavel camp. È il caso di Jamila in Chatila camp. È il caso di molte altre donne leader che purtroppo non abbiamo potuto conoscere. Chatila è un groviglio di fili. Jamila, coordinatrice della scuola di Beit Atfal Assumoud, vive nel campo dal 1958. È nata a Balbeek, nel 1954, ma la sua intera famiglia era già presente in Libano dal 1948 quando i nonni per primi lasciarono Ajouni, il villaggio delle rose vicino ad Haifa, in cerca di un futuro. In quegli anni il governo libanese divideva i profughi siriani tra i campi del nord e del sud per distribuirli equamente su tutto il territorio, Beirut all’epoca era troppo sovrappopolata, troppo piena di palestinesi, e loro furono inevitabilmente indirizzati a Balbeek. Ma forse fu meglio così. L’aria di Shatila è insalubre, la gente si ammala respirando, vivendo. Le case di mattoni con il tetto in metallo diventano forni d’estate e celle umide d’inverno. Jamila stessa dopo pochi anni si ammalò e il padre, elettricista, fu costretto a scegliere di rinunciare al lavoro per ritornare a Balbeek, per la salute di sua figlia. Se chiedi a qualsiasi palestinese quale sia la priorità nella sua, nella loro vita, non ti elencherà mai elementi materiali come il cibo o una casa. Ciò che è importante è l’educazione. Con l’istruzione puoi accedere a tutto il resto, è la base, la sorgente della vita: conoscendo i propri diritti si può avere accesso a qualsiasi cosa, e lottare per qualsiasi cosa. Il padre di Jamila sosteneva la stessa causa, e ha trasmesso questo ideale anche alla figlia. “Preferisco non mangiare, ma tu devi andare a scuola”. Jamila ebbe la possibilità di frequentare una scuola privata libanese, laureandosi in letteratura araba nel 1981. Un nuovo inizio per lei. Ma nel 1981 inizia anche una guerra che ha portato tanta privazione quanto cambiamento, e ridefinizione dei rapporti sociali. Quando le chiedo se è sposata e ha figli la risposta è sempre associata alla guerra, tutto viene rimandato e legato ad un contesto di privazione. Nel 1981 Jamila, neolaureata, non stava per diventare moglie di qualcuno, ma leader del campo di Chatila: per dieci anni la vita si fermò, tutti gli uomini lasciarono il Libano privando le ragazze della possibilità di avere un marito, conferendo loro al tempo stesso maggiore autorità e facoltà decisionale sul territorio. Jamila, cos’è cambiato dal 1982? Tutto. Una totalità alienante di distruzione e miseria, dalle case alle relazioni. “Siamo palestinesi, cosa credi, noi le cose ce le prendiamo lavorando. Non vogliamo la pietà” mi dice. Ma poi riconosce che senza lavoro non è possibile procurarsi nulla. E il lavoro non c’è più da quel giorno. In passato l’UNRWA provvedeva a coprire ogni spesa medica e a fornire qualsiasi cibo, dalla frutta alla carne, tutto. Nel campo c’era persino una cucina e un’ambulanza che portava direttamente in ospedale chi stava male, e la scuola era libera, gratuita. Quando la guerra iniziò l’aiuto diretto venne sostituito con un trasferimento di soldi, 30 dollari ogni tre mesi per ogni nucleo familiare. Poi improvvisamente iniziarono a selezionare famiglie in situazioni di estrema difficoltà a cui dare questa somma, sostanzialmente per comprare beni di prima necessità, prevalentemente cibo. Oggi le Nazioni Unite non supportano le famiglie in nulla, non sostengono nemmeno i costi delle medicine per il cancro, e gli unici aiuti provengono da sponsor esterni come le ong o i governi stessi. Cos’altro è cambiato, Jamila? Contemporaneamente al crollo dei sevizi, alla crescente insostenibilità delle condizioni di vita, la popolazione continua ad aumentare. Nel 1948 a Chatila vi erano 4000 palestinesi, oggi se ne contano circa 23000. Il campo non si è esteso, è solo cresciuto in altezza sorretto dai fili elettrici che fanno da edera alle case. Inutili fili elettrici per un’elettricità che non viene mai fornita regolarmente e quotidianamente. Tre ore di giorno e di notte possono bastare, a volte anche meno. Oggi, per far fronte alla carenza di luce, molte famiglie decidono di condividere il costo e l’energia di alcuni generatori di corrente che vengono venduti per 100 dollari. Potrebbe anche essere un tampone al problema se non funzionassero a benzina creando ancora più rischi e disagi dell’assenza in sé di luce: i fumi tossici vengono scaricati direttamente sui vicoli, ad altezza umana, ed inalati dalle persone. In questo i bambini sono le prime vittime di malattie croniche come asma e allergie respiratorie. Non sono mai scoppiati? Si, ogni tanto accade che i generatori si incendino. Ma lo sai, nessuno si prende cura del campo dal 1982. “We try to solve the problem, but it is on the top”. Un problema a 360 gradi che tocca anzitutto i beni di prima necessità: elettricità, cibo, acqua. Nel campo l’acqua che arriva è salata, ovviamente non potabile. L’acqua per bere si deve comprare. Lavano se stessi e il cibo con acqua salata, per poi lasciarli un po’ in quella dolce, acquistata. Jamila, ma in tutti questi anni a Chatilla, in Libano, non hai mai pensato di andartene? O di cambiare nazionalità? Mia cara, se qualcuno prende la tua borsa per strada, ti borseggia, tu urli che quella borsa è tua. E urli forte. E allora perché non si può fare con la propria terra? E soprattutto, a prescindere da qualunque nazionalità io possa acquisire, io sono palestinese, e rimango palestinese. Qualche mese fa una donna in visita al campo  mi ha fatto la stessa domanda, io le ho chiesto da dove veniva, e lei mi ha risposto che era giapponese. Ma poi parlando mi diceva che viveva in America da quando era nata e che il Giappone lo aveva visto solo due volte nella vita. E quindi io le ho chiesto, ma non è la stessa cosa? Tesoro…io sono nata qui, mi piace il Libano. Ho contribuito all’economia di questo Paese, ho lavorato per questo Paese, ma non sarò mai libanese. Ogni volta che torno qui mi accorgo che stavo meglio lontana da Beirut.
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